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Carlo A. Pelanda
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L'%20Arena

2001-4-2

2/4/2001

Aspettando la primavera economica

Negli ultimi mesi le cronache economiche hanno privilegiato i “grandi scenari” relativi alla fase di incertezza dell’economia globale dovuta al rallentamento della locomotiva americana che la traina. In particolare, il lettore-risparmiatore cercava nei macrodati illuminazioni per capire quando sarebbe finito il deludente momento borsistico. La situazione non è ancora del tutto chiara, ma non si vede alcuna catastrofe: la fase bassa sta per sfogarsi (qualche mese ancora), resta solo il dubbio sui tempi esatti e sull’entità della ripresa, ma non sul fatto che è all’orizzonte. Stabilito che il grande quadro sta passando dal grigio al rosa (tenue), ora l’attenzione può tornare alla situazione microeconomica. Quella che riguarda, semplificando, l’economia reale e la posizione degli individui in essa:  il mondo del lettore-lavoratore. Vediamolo nell’area di casa nostra, eurozona ed Italia.

 I dati mostrano che nel 2000 l’occupazione è salita. Ma, per l’Italia, molta della nuova occupazione (al Sud) è finanziata con denaro assistenziale e a termine. Le statistiche non dicono, ovviamente, cosa succederà quando tali programmi di “occupazione artificiale” finiranno. Ma è facile prevederlo: senza il sostegno del mercato molti di questi posti fittizi torneranno ad essere minacciati dalla disoccupazione reale. Nel resto dell’eurozona l’occupazione è aumentata meno di quanto ci si sarebbe aspettato in base alla buona crescita del Pil spuntata nel 2000. Resta infatti mediamente poco sotto il 10%, più del doppio di quella americana che, pur in fase di contrazione economica, è al 4,1%. Il mistero non è difficile da spiegare. La crescita europea è stata trainata quasi totalmente dalle esportazioni verso l’area del dollaro e non da un forte dinamismo negli investimenti e consumi interni. In questi casi le industrie favorite non assumono tanto nuovo personale, ma usano di più quello esistente. Infatti la base industriale non è aumentata. Nel 2001 l’America importerà di meno e la crescita europea ne soffrirà (probabilmente si assesterà attorno ad un mediocre 2% dopo il non eccezionale 3% del 2000). Quindi il modello economico europeo-centrale (Francia, Germania ed Italia) caratterizzato da un mercato poco liberalizzato e molto caricato di tasse e vincoli mostra uno stato di salute reale molto inferiore a quello che appare da una lettura superficiale dei dati statistici. Controprova: nel vertice franco-tedesco di Rouen, sabato scorso, si è deciso di tentare un’azione più determinata per favorire la crescita, la modernizzazione e l’integrazione economica dell’eurozona, evidentemente ora non soddisfacenti.

 Questo serve a dire che ai dati statistici apparentemente  buoni dell’eurozona  non corrisponde un aumento delle opportunità economiche reali per i lavoratori già occupati, quelli in attesa di lavoro ed i giovani. Appunto, l’eurozona è ancora in attesa di riforme liberalizzanti che espandano la quantità delle imprese e ne aumentino la qualità competitiva: ancora in attesa del disgelo. Per capirsi meglio, compariamo l’economia liberalizzata americana con quella ancora statalista e rigida dell’eurozona. Negli anni ’90 la crescita del Pil statunitense, facendo delle medie “spalmate”, è stata annualmente del 3,1% mentre quella dell’area euro dello 1,75%. Tale dato è correlato all’offerta di lavoro (lla quantità di lavoratori che le imprese richiedono): in America è del 78%, nell’eurozona solo del 66%. Soprattutto, la produttività nella prima (il valore di un ora di lavoro) è cresciuta, dal 1996 al 1999, dell’1,6% all’anno, nella seconda solo dello 0,5%. Cosa vuol dire, il tutto? Che in America nascono più industrie, con più tecnologia, che danno lavoro a più persone. E più salario. Mentre l’Europa ha meno varietà industriale, meno tecnologia, meno opportunità di lavoro e paghe minori. Ciò chiarisce il punto che poi interessa, in concreto, il lettore-lavoratore. Con un particolare inquietante: chi ha il lavoro, nell’eurozona, comunque non sta ricevendo in busta paga grandi miglioramenti. In Italia la situazione, in materia, è perfino peggiore. Mentre un operaio tedesco può spendere circa tre milioni netti al mese, quello italiano solo uno e mezzo, il resto trattenuto dallo Stato, pur in parità (sulla carta) di servizi pubblici finanziati dal denaro fiscale. A parte la considerazione che i sindacati nostrani non hanno mai messo in luce questo spaventoso divario sfavorevole ai loro stessi rappresentati, il punto di fondo è che il congelamento economico europeo, alla fine, non è stato ancora risolto, resta endemico da più di un decennio, lascia sottopagato chi lavora ed incerto chi è in attesa di farlo.

 Questa parte del quadro è complicata, poi, dal fatto che i redditi da lavoro non-crescenti vengono sempre di più erosi da un’inflazione europea che nella realtà è più alta di quanto appare nelle statistiche, in parte (si sospetta) addomesticate per farla risultare bassa. Non parliamo poi dei redditi minimi dei pensionati. In sintesi: nell’Europa che appare in crescita lenta, ma stabile, in realtà sta aumentando la quantità di persone che si stanno impoverendo, cioè che vedono diminuire il loro potere di acquisto.

 In conclusione, anche quando l’economia globale riprenderà a tirare, le Borse risaliranno, resterà il problema di un’Europa che non crea e diffonde una ricchezza sufficiente per tutti i suoi abitanti. Questo è il punto, principalmente politico, su cui ora deve concentrarsi l’attenzione: il disgelo, l’attesa di una primavera economica. 

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