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Carlo A. Pelanda
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2000-10-16

16/10/2000

Il mercato aspetta scelte politiche chiare

Nonostante il forte recupero di venerdì 13 (che è una data propizia per gli operatori finanziari in quanto la crescita ininterrotta americana è iniziata il venerdì 13 agosto 1992), il mercato globale appare ancora preda di un forte pessimismo di fondo. In un’economia altamente finanziarizzata il fattore psicologico è quello più critico che crea o distrugge la crescita reale orientando in un senso o nell’altro i flussi di capitale. Se non arriva presto una serie di buone notizie non è escluso che l’incerto umore del mercato possa tornare nero e portarci verso una crisi di raggio mondiale. Il punto, ora, è capire quale possano essere tali buone nuove e determinarne la probabilità. Analizziamo i fattori più critici dello scenario.

Primo, parte del pessimismo dipende dal fatto che è finita l’epoca di crescita a bolla dei valori finanziari legati alle nuove tecnologie. Quindi c’è un effetto delusione che fa esagerare l’attesa negativa e penalizza oltre misura tale settore trainante. Che, tuttavia, resta promettente. Ma il mercato deluso non può più fidarsi di scenari cartacei, anche credibili. Ha bisogno di buone nuove concretissime. E queste possono venire solo dalla dimostrazione che le imprese ad alta tecnologia siano capaci di sfornare profitti reali. Ma ci vorrà un po’ di tempo. Per colmarlo ci dovrebbe essere un atto di coraggio da parte delle istituzioni che maneggiano capitale di investimento: finanziare nuovi start-up (la quotazione iniziale di un impresa) e non ritirarsi. Basata sul correlato coraggio di imprenditori che non aspettano il ciclo buono per tentare la quotazione e ci provano subito. Se avviene, soprattuto in America, allora la caduta dei titoli tecnologici – e la crisi di liquidità che attanaglia le aziende Internet - sarà presto invertita. Probabilità? Media.

Secondo, proprio nel momento in cui il mercato stava aspettando che la caduta dei valori azionari raggiungesse un pavimento, per poi rimettersi a comprare al rialzo, sono intervenute tante cattive notizie oltre a quella dello sgonfiamento della bolla detta sopra: petrolio stellare, crisi mediorientale che rischia di alzarlo ancora di più, depressione oltre misura dell’euro che distrugge i profitti delle operazioni europee delle aziende globali quotate in dollari. E tutte queste hanno dato un messaggio complessivo inquietante: il mercato potrebbe cadere vittima di fattori non governabili e di una tensione inflazionistica. Qui i messaggi rassicuranti devono arrivare dalla politica. Il primo è quello di mostrarsi capaci di tenere sotto controllo il prezzo del petrolio e tutti i contorni geopolitici che lo influenzano. La probabilità che l’America ci riesca, nonostante una certa incompetenza di Clinton, è abbastanza elevata. Lo è molto di meno quella che i governi europei riescano a togliere i pesi strutturali che deprimono la crescita economica dell’eurozona e tengono troppo basso l’euro.

Il quarto fattore, ma è il più importante, riguarda la previsione sulle sorti dell’economia statunitense nel prossimo futuro. L’autorità monetaria (Fed, presieduta dal mitico Greenspan) ha, nel 2000, raffreddato la crescita eccessiva, rialzando i tassi, sia per contenere l’inflazione sia per tenere alto il dollaro in modo da compensare, per ritorno dei flussi di capitale, il deficit commerciale dovuto ad importazioni troppo superiori alle esportazioni. In sintesi, la Fed ora si ritrova a pilotare il cosiddetto atterraggio morbido dell’economia americana, cercando di incanalarla entro un incremento del Pil nel 2001 attorno al 3,5%, considerato non-inflazionistico. Il dubbio e se ci riuscirà senza far precipitare tutto in una recessione improvvisa. Ed è motivato da una situazione infernale che si sta verificando proprio in questi giorni. Si stanno incrociando due tendenze opposte: segnali di rallentamento sul piano della produzione combinati con un mantenimento di una forte domanda di consumi. La seconda produce inflazione (infatti aumentata nell’ultimo mese) ed un peggioramento del deficit commerciale. Quindi costringe a tenere i tassi ed il dollaro alti. I primi, al contrario, consiglierebbero di predisporsi a ridurre il costo del denaro. Appunto, situazione infernale, mai finora sperimentata da nessuno.

A questo clima pencolante si aggiungono altre incertezze tecniche. A medio, la difficoltà oggettiva del dollaro di restare così alto ed attrattivo in situazioni di rallentamento della crescita. A lungo, la sensazione che la contrazione degli investimenti in nuove tecnologie, problema detto sopra, potrebbe rallentare l’aumento della produttività (valore di un’ora di lavoro) e, quindi, ridurre lo spazio per la crescita non-inflazionistica negli Stati Uniti. Questo coktail tiene con il fiato sospeso il mercato finanziario americano e, per effetto riverbero, incerto tutto il resto del mondo. Se la locomotiva statunitense si fermasse, infatti, tutte le economie esportatrici andrebbero in recessione. L’eurozona ed il Giappone per primi in quanto la loro crescita, gracile, è quasi esclusivamente trainata da fattori esterni, cioè dalle importazioni di mamma America. E ciò non permette di escludere, anche se non ci credo, una possibile grave ed improvvisa recessione mondiale.

Probabilità? Difficile definirla. Tutto lo scenario, in conclusione, pesa sulla buona conduzione della poltiica monetaria americana da parte di Greenspan. Posso solo confidare sul fatto che negli ultimi anni non ha sbagliato un colpo.

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