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Carlo A. Pelanda
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2000-5-17

17/5/2000

Economia USA

Il difficile equilibrio tra tenaglia e velluto

(titolo originale)

C’è un modo dolce per fermare una locomotiva impazzita che continua a correre senza freni? Alan Greenspan persegue l’obiettivo di “atterraggio morbido” per l’eccessiva crescita americana nel 2000, cioè di riuscire a contenerla tra il 3,5  ed il 4%, rialzando il costo del denaro fino a quando ciò non avverrà. Ma questa sta volando sopra il 5% annualizzato. A questo punto qualche osservatore comincia a temere che l’aereo volerà spensierato fino a che gli mancherà il carburante (liquidità) o gli si incendieranno i motori (inflazione) nonostante i segnali di allarme. Poi precipiterà. Tale ipotetico scenario di “crash” (recessione improvvisa) è preoccupante non solo per gli americani, ma per tutta l’economia mondiale. Se, infatti, venisse improvvisamente a mancare la locomotiva americana ci sarebbe il rischio di crisi per tutto il mercato globale. Europa e Giappone non sono ancora in grado di assorbire le esportazioni da tutto il resto del pianeta come sta facendo ora l’America. La prima resta molto depressa sul piano interno – per motivi di ingessamento politico dell’economia - e sta crescendo solo grazie alla leva dell’export dovuta alla svalutazione dell’euro. Lo stesso può dirsi per il secondo. In tali condizioni, se il dollaro ed i consumi americani cadono improvvisamente, Europa, Giappone, Cina e America Latina andranno in recessione o stagnazione. Se, invece, la miracolosa economia americana continuerà a crescere entro un binario più equilibrato, allora dopo il 2001 il mercato globale potrà avere tre locomotive: un’America solida senza bolle né sgonfiamenti; un’Europa che lentamente si riforma e che trasforma in crescita duratura il suo enorme potenziale ora compresso; un Giappone fuori dai guai capace di fare da volano all’emergente mercato asiatico. Con la probabile ciliegina di un boom sudamericano. Al momento siamo in bilico tra i due scenari. E l’unica cosa certa è l’avverarsi dell’uno o dell’altro verrà decisa dal comportamento del mercato e dell’autorità monetaria (Fed) americani nei prossimi mesi. 

 Il punto, semplificando, è quello di riuscire a dare una calmata alla voglia di spendere degli americani senza gettarli, per altro, nel pessimismo. In effetti, ad aprile, c’è stato un leggero calo dei consumi al dettaglio perché l’aumento dei tassi di riferimento nei mesi scorsi ha reso più costoso l’acquisto con carta di credito. Ma tutti gli altri dati più recenti confermano che la locomotiva sta ancora accelerando. La produzione industriale è aumentata, in un mese, dello 0,9%. L’uso degli impianti manifatturieri è salito all’82,1% dallo 81,7. Soprattutto,  la domanda di nuove case è schizzata al 2,8%, un dato critico. Vuol dire, infatti, che i precedenti rialzi dei tassi, quindi del costo dei mutui, non ha scoraggiato gli acquisti di nuove abitazioni. In sintesi, prevale nel mercato un enorme ottimismo espansivo che lo rende non del tutto sensibile alle strette monetarie calmieranti. Ed è proprio da questo fattore psicologico che nasce il rischio. La Fed potrebbe essere costretta ad esagerare con la stretta monetaria per riportare alla realtà il mercato. Ma il risveglio potrebbe essere troppo brusco, portando il sistema da un eccesso di ottimismo ad uno di pessimismo, con conseguente improvvisa recessione.

Chiarito questo, va aggiunto che finora la Fed è stata forse troppo morbida nella sua strategia di rialzare solo dello 0,25% per volta i tassi. Alcuni cominciano a dire che ha agito troppo in ritardo e che doveva stringere di più già nel 1999 (anno in cui l’economia USA è cresciuta quasi del 7%). E che ha dato messaggi sbagliati. Per esempio, dal settembre scorso al febbraio 2000 la quantità di denaro preso a prestito per fare giochi speculativi in Borsa è passato dai 180 miliardi di dollari ai 265, tutti impiegati per comprare titoli tecnologici sul Nasdaq. Che, infatti, è cresciuto dell’88% in cinque mesi. Segno che il mercato ha sottostimato i messaggi di stretta che venivano dalla Fed. E ci è voluta la musata del primo crollo del Nasdaq (sceso del 34% dal 10 marzo al 14 aprile), dovuto più ad un ripensamento sulla bolla tecnologica che non alla paura di un rialzo dei tassi,  per far capire al mercato che era finito il tempo dei giochini rialzisti troppo facili. Ma nelle Borse ancora si equivalgono le forze ribassiste con quelle rialziste. Segno che una parte del mercato tuttora spera in crescite finanziarie che, invece, la Fed avverte non saranno più possibili. Evidentemente l’autorità monetaria si trova nella necessità di “spaventare” di più un mercato che sembra sensibile solo ai messaggi brutali.

D’altra parte ci sono alcuni dati rilassanti. Per esempio, nonostante la piena occupazione (i senza lavoro sono al minimo storico del 3,9%) l’inflazione strutturale (cioè esclusi i prezzi dell’energia e del cibo) è sotto controllo. Infatti, ad aprile è aumentata solo dello 0,2%. Se continua così e se il prezzo del petrolio non aumenta, l’inflazione complessiva potrà stare sotto il 4% (2,7% nel 1999), soglia che comporta la priorità di raffreddare l’economia al costo di mandarla in crisi. Inoltre ci sono i segni - pur ancora sommersi da quelli detti sopra -  che sta iniziando un piccolo rallentamento della crescita. Che potrebbe fermarsi attorno al 4,5% per l’anno in corso. Non sarebbe quel 3,75%  che Greenspan ritiene un “atterraggio morbido”, ma indicherebbe comunque l’avvio di un calmieramento spontaneo che non richiede di aumentare i tassi di riferimento sopra il 7% (soglia oltre la quale secondo me ci potrebbe essere una pericolosa crisi di liquidità).

In sintesi, lo scenario mondiale resta appeso alla doppia capacità di Greenspan sia di calmare i bollori sia di non esagerare nel farlo, cioè di saper equilibrare tenaglia e velluto. Non lo invidio.

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