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“Sbarcare” a Oriente: ma a che prezzo?
Mirko Molteni
All'orizzonte potrebbe delinearsi il rischio che le “guerre preventive” o “umanitarie” diventino una prassi normale nella politica estera dei Paesi occidentali. Qualcuno pensa infatti che l’espansione della democrazia nel mondo debba avvenire anche a costo di conflitti e tensioni. Si dimentica però che ogni popolo è figlio di una storia, di una geografia e di tradizioni troppo particolari per appiattirle su una comune scala di riferimento. E’ uscita per le edizioni Franco Angeli un’opera a più mani, curata da Carlo Pelanda e che sotto il titolo “Democrazia attiva” raccoglie saggi di 8 esperti di politica, da Carlo Jean ad Angelo Panebianco, per citare i più noti.
Scrive Pelanda che il libro ha lo scopo di «propugnare la democratizzazione globale». In altre parole, proporre linee-guida ideologiche per il XXI secolo. E sul termine “ideologico”, precisiamo che è lo stesso Pelanda a usarlo. Secondo lui si dovrebbe passare a una “democrazia attiva” che lotti per espandersi. D'altronde si chiama “Active Democracy” il progetto che lo studioso ha avviato per «formare un movimento di opinione e pressione politica sia in Europa sia in America per porre nei circuiti di dibattito nazionali il tema della democratizzazione in priorità».
Elenca i vantaggi di un mondo interamente democratizzato. Primi fra tutti, la minor probabilità di guerre e una migliore distribuzione della ricchezza. In verità la democrazia moderna esiste da un tempo storicamente troppo breve perché la si possa definire semplicemente più “pacifista”. Le democrazie hanno spesso lottato unite contro i Paesi autoritari per ragioni più complesse delle affinità politiche. Le guerre nascono principalmente per motivi geopolitici mascherati da qualcos’altro, nonché per la naturale tendenza degli esseri umani a riconoscersi membri di un gruppo ristretto che mai coincide con l'intera umanità.
Se davvero un giorno tutti gli Stati saranno democratici, temiamo che semplicemente governi e popoli saranno costretti a trovare altri pretesti per massacrarsi a vicenda. Pelanda sostiene che la democratizzazione globale dovrebbe scaturire dall'iniziativa di Europa e America. Il “polo atlantico” dovrebbe condizionare quanto più possibile, anche con mezzi che ci paiono brutali, la politica interna altrui. Per dirla con le sue parole: «La strategia giusta è quella di accendere una strategia condizionante più fatta di incentivi e di gradualità, ma rinforzata dalla disponibilità al ricorso alla forza per contenere i rischi. Tale giusto mix di bastone e carota ha la maggior probabilità di indurre i democratizzandi a comportamenti cooperativi». Come dire: siate simili a noi con lo zuccherino, oppure diventatelo con la forza. Per inciso, è sulla base di questa presunzione, che identifica l'Occidente come modello da seguire, che Paesi asiatici come la Turchia bramano di entrare nell’Unione Europea, così come milioni di immigrati si lasciano attrarre dai bagliori televisivi. La realtà è sempre più complessa delle speculazioni accademiche e allora Angelo Panebianco, nel capitolo di sua competenza, giunge in soccorso del realismo, ammettendo: «Prendiamo il caso dell'Iraq. La principale condizione favorevole alla democrazia è data dalla presenza di una forte e numerosa classe media. Ma questa condizione è ridimensionata dal fatto che il grosso della classe media si concentra nella parte sunnita del Paese, il gruppo religioso dominante sotto la dittatura di Saddam. Le altre condizioni presenti sono per lo più sfavorevoli». Panebianco enumera fra l'altro l'assetto tribale e la “monocoltura del petrolio”, oltre alla “resistenza” della cultura islamica alle influenze occidentali. Un tema, questo, toccato anche da Carlo Jean che va alla radice della diversità islamica spiegando come il sistema dei clan, da un lato, e la mancanza di un vero regime fiscale, dall’altro, concorrano nel rendere assai incomprensibile il concetto di democrazia moderna a larga parte del Medio Oriente. «La rendita petrolifera monopolizzata dai clan al potere - scrive l'ufficiale alpino - permette di non imporre tasse (...) L'assenza della necessità di imporre tasse esenta la classe dirigente dalla necessità di avere il consenso - e il controllo - del popolo perché le paghi». Sistemi incommensurabili ai nostri.

 

[Data pubblicazione: 21/05/2006]

 

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