Analisi dei sistemi di imputazione della
violazione delle tregue
di
Carlo Pelanda
COPIT
Comitato di parlamentari per l'innovazione tecnologica
&
Ce.Mi.SS
Centro militare studi strategici
Roma
Dicembre 1994
1. INTRODUZIONE: la genesi politica dell'idea italiana al riguardo dei sistemi di imputazione
Nel vertice dell'Alleanza Atlantica del gennaio 1994, il Governo italiano ha proposto che la NATO studiasse nuovi mezzi per rendere più efficaci e flessibili gli interventi di pace sotto l'egida di organizzazioni sovranazionali. In particolare, l'Italia ha proposto la valutazione di un sistema in grado di attuare un controllo informativo sul rispetto degli accordi di tregua e dei diritti umani capace di imputare precisamente le violazioni:
"...Italy has proposed to examine the possibility of a long-range detection system. Such a system, making use of advanced technologies, would gather and make public evidence of violations of agreements and truces, or crimes against humanity perpetrated during conflicts." (dal discorso del Presidente del Consiglio dei Ministri Ciampi al vertice NATO del 10 gennaio 1994)
La proposta italiana si é basata sulla insoddisfazione al riguardo dei limiti vistosi di efficacia delle operazioni di Peacekeeping in Bosnia e sulla preoccupazione che i compiti presenti e futuri della NATO in materia (come braccio operativo dell'ONU e comunque coinvolgenti direttamente o indirettamente l'Italia) non trovassero un'organizzazione di mezzi e procedure capaci di svolgere adeguatamente le missioni di Peacekeeping, come espresso implicitamente in un documento di accompagnamento alla proposta italiana sopra citata:
" The experience we have all
acquired in Peacekeeping operations has demonstrated that the challenges they
constitute have not adequately met with the forces provided by the
international community."(Italian non-paper No. 22, documento NATO del
gennaio 94).
Tali missioni, infatti, costituiscono un'area grigia nell'ambito della definizione classica delle operazioni militari: per un verso, l'impiego della forza é limitato dalle finalità garantiste dell'intervento (interposizione, difesa dei civili, azioni umanitarie, ecc.); dall'altra l'intervento militare, pur con finalità limitate, é pur sempre un impiego della forza che di fatto si contrappone o sovrappone alla volontà di parti in guerra potenziale o reale. In altre parole, gli interventi di peacekeeping (e di Peace-making o umanitari di vario tipio) implicano un impiego anomalo della forza: deve essere usata per limitare la forza altrui, ma non può essere usata pienamente in forma di guerra aperta.
Di fatto le nazioni dell'Occidente si sono trovate ad operare in missioni sotto ombrello ONU (Somalia, Bosnia) senza dottrine e mezzi sufficientemente flessibili per poter modulare l'impiego della forza e senza strumenti capaci di realizzare concretamente la missione di regolazione dei conflitti.
(a) La mancanza di flessibilità è risultata vistosa nel caso della Somalia dove sono state impiegate procedure letali contro civili e nell'ambito di una missione definita come umanitaria. E ciò ha dequalificato la missione.
(b) Nel caso della Bosnia lo strumento militare di interposizione é stato del tutto inefficace nel far rispettare le tregue concordate dalle parti e, soprattutto, si é rivelato del tutto impotente nel contenere le azioni di genocidio contro i civili e la strategia della pulizia etnica (attuatata dalle tre parti in lotta, ma pubbliccizzata di più dai Serbo-bosniaci come terrorismo comunicativo). Va aggiunta anche una valutazione di relativa inefficacia delle azioni di embargo.
Queste considerazioni spingevano il Ministro degli Esteri, nell'autunno del 1993, a cercare una soluzione per i due tipi di limiti rilevati nell'approccio al Peacekeeping. Il gruppo informale di studio attivato nell'occasione dal Ministro raccomandava di proporre alla NATO sia uno sviluppo accelerato di armi non letali sia la costruzione di una capacità di imputare con precisione le violazioni delle tregue, degli embarghi e, soprattutto, dei diritti umani. Tale raccomandazione era basata sul principio di rendere più flessibile lo strumento militare in modo tale da permettergli di mantenere il controllo di un territorio senza necessariamente uccidere e su quello di costruire un sistema informativo capace di individuare, registrare e definire i responsabili dei crimini di guerra e di altre violazioni.
A questo secondo punto veniva data un'enfasi particolare. Chi allora definiva l'interesse nazionale italiano riteneva che il Paese ed il contesto di Alleanza al quale esso partecipava dovesse assumere una capacità di pressione politica anche in quei casi di regolazione dei conflitti dove era impossibile o comunque controproducente l'intervento armato vero e proprio. In particolare vi era la preoccupazione che casi come quello della Bosnia costituissero una erosione pericolosa della credibilità sia europea che della NATO. In tale senso veniva posto il problema di come ricostruire una certa capacità di dissuasione pur in situazioni di impotenza militare e politica.
A questo problema si rispondeva esplorando le possibilità di utilizzare il diritto come arma nei contesti internazionali. Si pensava, infatti, di dare ai diritti umani più forza legale della cittadinanza entro i singoli Stati nei casi in cui quest'ultima non poteva più garantire il rispetto dei primi. Questa sarebbe stata la fonte di diritto per sanzionare i violatori prima definendoli come criminali e poi riservandosi di esercitare la punizione nel futuro. Il Governo era consapevole che un tale approccio rovesciava i fondamenti del realismo diplomatico. Tuttavia riteneva che la creazione di un nuovo strumento di diritto internazionale capace di trasformare azioni come la pulizia etnica e, in generale, il conflitto contro popolazioni, da atti bellici di responsabilità collettiva in atti di responsabilità individuale penalmente perseguibili, fosse uno strumento essenziale per i nuovi compiti di regolazione dei conflitti sotto ombrello ONU o comunque multilaterale.
Entro questa catena logica il principio di imputabilità veniva anche sviluppato come strumento "positivo" capace di rinforzare gli accordi di tregua concordate tra parti in lotta in presenza di un garante. L'ipotesi di lavoro era basata sull'idea che se le parti avessero accettato entro l'accordo di tregua anche una sanzione somministrabile dal garante, allora tali accordi sarebbero risultati potenzialmente più stabili. Ma per rendere legittima l'azione sanzionatoria del garante era necessario possedere e legalizzare la certezza al riguardo delle violazioni ed una carta siglata dalle parti che riconoscesse al garante stesso il diritto di intervenire militarmente in caso di sanzione accertata (con la facoltà del garante, ovviamente, di riservarsi le decisioni per evitare trappole di escalation bellica).
Nell'autunno del 1993 e nei primi mesi del 94 il Governo Italiano era dibattuto tra realismo etico e realismo pragmatico in relazione al caso bosniaco.
Il realismo etico implicava una politica forte ed interventista. Quello pragmatico richiedeva posizioni sfumate ed ambigue tali da poter essere modificate in relazione alle contingenze. Il Ministro degli Esteri, vincolato dalla doppia esigenza di dover allinearsi a una posizione europea di difficile equilibrio intrinseco e dal fatto che l'Italia non aveva forza per agire in termini propositivi (oltre al fatto che il Parlamento era in fine legislatura e delegittimato dalla crisi morale, quindi incapace di elaborare scelte nazionali forti in materia), ha optato per il realismo pragmatico. Ma la posizione culturale dei vertici governativi era, al contrario, orientata ad esplorare le nuove frontiere del realismo etico da intendersi come ruolo attivo dell'Italia in un sistema di alleanze capace di agire con più efficacia nelle crisi internazionali.
In questo quadro va visto il perché, ad un certo punto, l'Italia, con certa sorpresa degli alleati della NATO, decideva di proporre lo studio di fattibilità per due tipi di sistemi-armi di carattere, intrinsecamente, offensivo: le armi non-letali ed i sistemi di imputabilità. Le prime sono armi che non uccidono, ma proprio per questo consentono di ottenere il controllo delle situazioni secondo una volontà intrusiva e regolatrice.
Per esempio, la disponibilità di tali armi in Somalia avrebbe normalizzato il territorio in quanto avrebbe permesso l'uso della forza contro la guerriglia locale: i sistemi non-letali, infatti, sono armi di superiorità assoluta, e non solo relativa, che permettono di annichilire una forza avversaria senza doverla distruggere (infatti nell'operazione United Shield del febbraio 95, finalizzata al disingaggio delle truppe ONU dalla Somalia, le Forze Armate statunitensi sono state dotate di alcuni tipi di questa nuova generazione di armi). Di converso la disponibilità di sole armi letali trasforma il controllo del territorio in una guerra aperta e distruttiva, di gestione pressoché impossibile in situazioni come quella somala.
Nel caso bosniaco la disponibilità di sistemi di imputazione avrebbe dato alle forze ONU una risorsa legale per estendere nel futuro la possibilità di punizione delle violazioni che non era possibile esercitare nel presente, vista la decisione delle potenze occidentali di non intervenire militarmente in quel teatro.
La filosofia dei sistemi di imputazione come sottesa nella proposta italiana, infatti, era finalizzata a mantenere attiva la punibilità dei violatori nel tempo. L'ipotesi (e non si dimentichi che il Governo allora aveva proposto agli Alleati di studiare la cosa e non ne aveva data per scontata la fattibilità e l'utilità) consisteva proprio nel ritenere che una certificazione legalizzata del crimine, imputato individualmente, avrebbe agito come forma di dissuasione integrativa o differita nei casi in cui quella classica non poteva essere esercitata. In altre parole l'idea era che la capacità di registrare con mezzi di intelligence atti di violenza avrebbe dissuaso gli attori a compierli in quanto imputabili individualmente. Inoltre avrebbe dissuaso - era l'ipotesi - gli Stati in relazione alla prova certificata del crimine o della violenza compiuta in loro nome. Soprattutto avrebbe prolungato nel tempo la possibilità di punire gli attori individuali e statuali.
La certificazione del crimine era anche vista come sostegno comunicativo per eventualmente rendere più accettabile dalle opinioni pubbliche la realizzazione di interventi armati contro i violatori. In altre parole si riteneva che dei sistemi di imputazione capaci di rendere evidente un crimine o una violazione vistosa avrebbero aiutato la definizione della guerra giusta e quindi legittimato sul piano del consenso l'attivazione della forza militare.
Complessivamente i sistemi di imputabilità VIS (Violation Information Systems) proposti dall'Italia alla NATO come studio di fattibilità vanno considerati come una nuova forma di arma non-classica di carattere offensivo in quanto tende a porre tutta l'opinione pubblica mondiale e le fonti di legittimità per azioni di polizia, in una sola parola il diritto, contro i violatori. Il che, tradotto in termini strategici, significa modificare il significato della vittoria che uno Stato ottiene sul piano militare. Infatti tale vittoria sarebbe limitata dal fatto che un organo internazionale ha le prove e la legittimità per sottoporre a giudizio ed eventualmente sanzionare chi ha vinto. E poiché nessuno Stato può stare in guerra perpetua, alla fine la sanzione avrà un valore politico che peserà sul significato della vittoria ottenuta a sfavore del vincente,soprattutto se tradotta in termini di sanzioni economiche. Si tratta di un'arma che costringerebbe gli Stati a ragionare su un'asse di tempo molto più lungo di quello utilizzato nelle analisi dei vantaggi ottenibili con un successo militare.
Ma proprio per questa sua natura di arma, la costruzione politica dei sistemi VIS é di fattibilità molto complessa. Le tecnologie per ottenere dati probanti sulle violazioni esistono, ma sono disponibili solo a pochi Paesi avanzati. Per questo motivo l'ONU non può accettare come dato legale la registrazione di un crimine di guerra o di una violazione ottenuti con tecnologie disponibili solo ad una piccola parte dei suoi membri. Inoltre il dotare di una capacità imputativa un organo sovranazionale significa limitare strutturalmente le sovranità nazionali. Poiché gli organismi sovranazionali sono sempre dominati da un circolo ristretto di nazioni più potenti é ovvio che la maggioranza dei Paesi presenti all'ONU sarebbe contraria a dotare tale organismo di un potere imputativo così forte.
Ma questo era ben noto nel momento in cui l'Italia proponeva lo studio dei sistemi VIS alla NATO. L'idea era quello di comunque vedere se era possibile dotare la NATO di un potere, intanto strumentale, per attivare un elemento del ciclo della imputabilità. In altre parole l'Italia cercava di spingere gli alleati a costruire intanto un pezzo del sistema in modo tale da aprire la discussione per successivi sviluppi.
Infatti la proposta italiana chiedeva di studiare due possibili configurazioni del sistema VIS. Il primo, eventualmente applicabile in tempi brevi, finalizzato alla sola imputabilità delle violazioni delle tregue per migliorare le capacità degli interventi regolativi NATO sotto mandato ONU. Il secondo, come sviluppo successivo del primo, dedicato a definire in dettaglio ed estensivamente l'imputabilità per qualsiasi forma di violazione dei diritti umani, di evoluzione estremamente più complessa sia per gli aspetti tecnologici che quelli politici detti sopra.
Più precisamente l'Italia proponeva alla NATO di studiare due sistemi con le seguenti caratteristiche e denominazioni:
(a) VIS-ATHOS (Agreements & Truces High resolution Observation system). Implica l' impiego degli attuali sistemi di acquisizione obiettivi, di sorveglianza ed intelligece, con eventuali modifiche marginali, per scopi di controllo delle violazioni macroscopiche. La valutazione della sua fattibilità complessiva appare prioritaria nell' ipotesi che sia possibile renderlo operativo in tempi relativamente brevi.
(b) VIS-ICARUS (Individual Crime Analysis & Recording Unambigous System). Implica una capacità molto raffinata di individuazione e registrazione remote di violazioni individuali in aree ostili e/o dove non esiste una funzione ordinaria di polizia. Essa richiede sicuramente modificazioni e sviluppi di rilievo degli attuali apparati e procedure . L'utilità del sistema si basa sulla possibilità di certificare l' obiettività del dato per renderlo giuridicamente valido in relazione ai requisiti delle magistrature internazionali e nazionali.
All'inizio del 1995 non sembra che queste due ipotesi di sviluppo abbiano compiuto grandi passi avanti in riferimento al momento della proposta. Comunque l'idea, se non nel dettaglio proposto dall'Italia, é certamente matura come possibile strumento di cui la NATO potrebbe dotarsi per rendere più efficaci i propri interventi di Peacekeeping (PK) sotto ombrello ONU o CSCE (ora OCSE).
In questa ricerca cercheremo di assemblare alcuni elementi che permettano una valutazione più approfondita delle implicazioni legate al possibile sviluppo dei sistemi di imputabilità.
Nel secondo e successivo capitolo si cercherà di dare un'immagine di sintesi del nuovo scenario della sicurezza in generale in modo tale da delineare i riferimenti di contesto entro cui valutare l'evoluzione sia degli interventi di Peacekeeping sia del concetto di imputabilità.
Nella terza parte verranno individuati gli scenari di impiego dei sistemi di imputabilità e gli elementi essenziali per una strutturazione di essi in ambito NATO, con enfasi sugli aspetti organizzativi e politico-giuridici.
La quarta parte verrà dedicata alla valutazione della natura strategica e della fattibilità tecnologica dei sistemi di imputabilità. Tale valutazione verrà ampliata e specificata nel capitolo conclusivo.
2.
LIMITI DEGLI INTERVENTI DI
PACIFICAZIONE E LE NUOVE RISORSE DEI SISTEMI DI IMPUTABILITA' COME CATEGORIA
DEL NON-LETALE
2.1. La nuova conflittualità
La fine delle regole della guerra fredda ha segnato la ripresa della storia e della conflittualità etnica e religiosa. All'improbabile grande e disastrosa guerra fra i due blocchi, impedita dall'efficacia della dissuasione nucleare, si è sostituita la realtà di molte piccole guerre sia interstatali a livello regionale, sia e soprattutto infrastatali per il collasso e la contestazione a cui sono sottoposte le autorità centrali di molti stati multinazionali, quali l'ex-Jugoslavia e l'ex-Unione Sovietica.In linea più generale, sono a rischio tutti gli stati ex-coloniali, i cui confini sono stati tracciati indipendentemente da ogni considerazione etnica e storica. Nel corso della guerra fredda uno dei fattori più stabilizzanti era stata la tacita convenzione fra Mosca e Washington di non mettere in discussione i confini ereditati dagli stati nati dal processo di decolonizzazione. Esso è ora scomparso.
Non esistono paradigmi aventi un'efficacia simile a quella dell'interesse comune all'Est e all'Ovest di mantenere l'equilibrio fra i due blocchi, che possa ordinare la comunità internazionale. I fallimenti della decolonizzazione, della democratizzazione, dello sviluppo e dei processi di nation-building e di state-building negli stati ex-coloniali, stanno provocando in molti Paesi del Terzo Mondo, sia a Sud che ad Est dell'Europa, la richiesta di assistenza, di tutela, di essere - in una sola parola - ricolonizzati di fatto, anche se non di forma.
Ma la situazione é mutata rispetto al secolo scorso: le colonie non si cercano più, ma si rifiutano. Nessuno Stato industrializzato vuole né può assumersi l'onere di risolvere - ammesso che sia possibile - gli enormi problemi di sviluppo in tale nazioni, anche perché la copertura globale e in tempo reale dei media impediscono l'adozione delle misure alquanto brusche che avevano permesso all'Europa la pacificazione delle colonie conquistate. L'Occidente manca delle rudi fanterie necessarie per tali operazioni e non ha alcun interesse all'occupazione territoriale, dati i problemi di ordine pubblico che comporta, ed anche in relazione al fatto che può ottenere gli stessi vantaggi economici con mezzi molto più accettabili e indiretti, cioè con quelli della geoeconomia e con il mantenimento al potere di élites favorevoli.
D'altra parte, tali conflitti, anche se non coinvolgono interessi vitali dell'Occidente, influiscono sulla sua sicurezza in modi diversi. Rendono instabili i mercati ed impossibile la normalizzazione delle relazioni nord-sud ed est-ovest, che richiedono grandi investimenti e quindi stabilità e certezza. Senza di esse non é possibile lo sviluppo, premessa per la neutralizzazione dei rischi non militari alla sicurezza conseguenti alla bomba demografica e all'esplosione dei radicalismi, che finirebbero per destabilizzare dall'interno molti Stati che sono interessanti partners economici dell'Occidente.
Tali conflitti locali e regionali hanno un potenziale di espansione che potrebbe coinvolgere nell'instabilità aree e regioni vicine, come è ad esempio il caso della ex-Jugoslavia, in cui il conflitto attualmente limitato potrebbe internazionalizzarsi, provocando una nuova guerra balcanica.
2.2. Limiti del Peace-keeping
Sempre meno sostenibili ed applicabili sono il cosiddetto diritto-dovere d'ingerenza a fini umanitari della comunità internazionale, nonché il cosiddetto peacekeeping, cioé la commistione di operazioni tradizionali di peacekeeping - basate sul consenso delle parti in lotta, sulla neutralità dei caschi blu e sul non impiego della forza militare - con operazioni di peace-enforcing, legittimate da risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, ma impraticabili nella realtà - come hanno dimostrato gli avvenimenti a Beirut, a Mogadiscio e in Bosnia. La loro efficacia infatti presupporrebbe due fatti contraddittori:
- che i Caschi Blu possano essere considerati neutrali da una parte o fazione in lotta, anche dopo che ne sostengono formalmente o di fatto l'altra;
- che siano compatibili le funzioni di arbitro con quelle di attore o giocatore proprie di quelle di peace enforcement.
Uno può fare l'arbitro o il giocatore, ma non può svolgere entrambi i ruoli contemporaneamente. Ciò ha dimostrato i limiti delle istituzioni internazionali, e sta provocando un loro progressivo discredito, dopo il periodo di ottimismo o, se vogliamo, di gloria che hanno avuto negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra fredda.
2.3. I limiti tecnici e dottrinari degli interventi di pacificazione
Nel caso dell'intervento umanitario in Somalia l'esclusivo impiego dei sistemi d'arma tradizionali .si è dimostrato inefficace e controproducente per la loro letalità indiscriminata. E impensabile, infatti, fare ricorso a sistemi d'arma letali su vaste aree popolate prevalentemente da abitanti inermi, nell'ambito delle quali si muovono formazioni irregolari, terroristiche o semplicemente sobillatrici.
In altri casi di azione di pace, ed in presenza di situazioni di conflitto più classico (ad esempio nella ex-Jugoslavia), ha assunto estremo rilievo negativo la difficoltà di individuare le responsabilità obiettive sia delle parti in causa nel loro insieme sia dei singoli autori di atti di terrorismo verso l'interno o verso le Forze di pace (ad esempio nel caso di abbattimento di velivoli sotto le insegne Onu).
L'insieme di questi fattori ha posto i contingenti sovranazionali in una condizione di impotenza sia reale che psicologica, ed ha provocato reazioni nell'opinione pubblica dei singoli paesi partecipanti. Tali reazioni hanno oscillato tra atteggiamenti contrapposti, che sono andati da posizioni pilatesche (ritiro dei contingenti di pace ed abbandono della situazione e delle popolazioni al loro destino) a opzioni di interventismo massiccio con l'imposizione della pace grazie al diffuso ed indiscriminato impiego di armi classiche. Quindi l'inadeguatezza dei mezzi di intervento ha creato delle ondate di opinione pubblica non certo favorevoli al mantenimento di una linea razionale e coerente da parte dei governi. Il problema consiste, quindi, non solo nello stabilire se le missioni di pacificazione siano o no opportune, ma nel definire modi e mezzi di intervento che siano adeguati. E da questa valutazione iniziale che emerge l'opportunità di approfondire le possibilità di individuare un livello intermedio di azione dissuasiva e inibitoria non-letale.
2.4. Aspetti
critici per lo sviluppo dei sistemi non-letali
Quando si parla di armi non letali ci si trova immediatamente di fronte ad alcune valutazioni critiche di fondo. Fra queste si citano, a titolo di esempio:
- la presunta bassa capacità dissuasiva dei sistemi non letali;
- il rischio di indurre una escalation della reazione dell'avversario a fronte del modesto danno e dell'alto fastidio provocato da mezzi non letali;
- la pericolosità del diffondersi di armi non letali ad alta efficacia quale strumento di uso interno, per fini autoritari o per attività di malavita organizzata o per semplice coercizione interpersonale;
- l'elevato costo associato allo studio di sistemi non-letali ad alta efficacia, specie se con capacità selettiva;
- il rischio di vedere il formarsi di una oligarchia di paesi ad alta tecnologia in grado di dominare, grazie al possesso di tali armi innovative, la situazione mondiale.
Di queste critiche, la prima perde sostanziale efficacia dando per scontato l'accoppiamento delle armi non-letali con il ricorso eventuale a quelle letali (trasferendo la dissuasione delle seconde sulle prime). Tale approccio di integrazione tra letale e non-letale, poi, risolve anche il problema dell'escalation a fronte o a seguito di una non adeguata ubbidienza da parte dell'avversario al monito fornito con le armi non letali.
Le altre critiche riguardano certamente rischi associati al diffondersi di una nuova tipologia d'arma, ed in generale di raffinate tecnologie intrusive. Quindi il tema va affrontato con grande cautela, cercando di valutarlo sul piano più ampio delle possibili conseguenze. In ogni caso, un approfondimento adeguato potrà essere tentato solo a valle dell'individuazione di massima delle varie classi di armi non letali.
2.5. Tipologia e valutazione schematiche dei
sistemi non-letali
Passando all'esame della tipologia delle classi di armi non letali, si possono ipotizzare le seguenti categorie generali.
(a) Sistemi di imputazione.
Riguardano le tecnologie di intelligence atte a tenere sotto controllo continuo un territorio, una zona ristretta, un raggruppamento umano o un singolo individuo. Tale tipologia di arma non-letale ha una funzione primariamente psicologica e di natura preventiva, in particolare se configurata come mezzo probatorio di azioni illecite commesse e quindi quale strumento di giustizia e possibile punizione. In altri termini, disponendo di sistemi di controllo su un'area, su tutti i mezzi ivi operanti e su tutti gli abitanti, si impedisce, di fatto, la possibilità di comportamenti criminali, grazie alla significativa probabilità che il singolo ha di essere continuamente «visto» e «localizzato». Sinteticamente, tale tipologia di arma non-letale può essere denominata come sistemi per accertare l'imputabilità collettiva e/o individuale. Lo scopo di tali sistemi sarebbe sia di contribuire al rispetto degli accordi di tregua accettati da parti in conflitto, sia, in versione più raffinata, di registrare in forma giuridicamente valida crimini di guerra ed in generale violazioni dei diritti.
(b) Sistemi di inibizione/interposizione.
Possono essere riferiti a regioni, aree più
contenute o, al limite, a singoli edifici. In questa classe di sistemi può
rientrare una ampia tipologia di mezzi, con finalità ed effetti più o meno
sofisticati. Vanno citati quelli rivolti a consentire la interposizione fra due
schieramenti contrapposti o alla ermetica delimitazione di un'area (per
impedire sia il propagarsi dello stato di tensione sia l'afflusso nell'area di
uomini e mezzi atti ad alimentare la tensione stessa) od ancora la protezione
di zone popolate da civili inermi ed estranei alle situazioni di conflitto e/o
di guerriglia (con estensione, quindi, anche ad ipotesi di impiego di civili
più o meno consenzienti quale scudo ad azioni militari, di guerriglia o
comunque delittuose).
Quale corollario del concetto di sorveglianza anche ai fini della imputabilità, vi è la necessità in alcuni possibili tipi di missione di peacekeeping di inibire un territorio, ossia di impedire in maniera assoluta l'ingresso e l'uscita non autorizzata di uomini e mezzi dal territorio stesso.
Sinora, pur con consistenti sforzi, non si è mai riusciti a conseguire tale obiettivo, essenzialmente sia per la scarsa decisione dimostrata nell'impiegare mezzi letali per imporre la rigida osservanza di un blocco militare totale, sia per i riflessi inaccettabili che ciò comporta sulla popolazione civile, sia per la quantità di forze da schierare per il raggiungimento dell'obiettivo.
Tale attività di inibizione, quando praticata, ha avuto, al più, successo in aree limitatissime e con un costo considerevole in termini di vite umane da ambo le parti.
Stabilito che il criterio di non letalità appare implicare l'assenza di contatto diretto fra forze inibenti e persone inibite, si ritiene che per raggiungere l'obiettivo sia necessario fare ricorso a mezzi del tutto innovativi per «sigillare» un territorio, non tanto e non solo in maniera attiva (inibizione diretta per impedimento), quanto come «allarme» di violazione di un confine cui segue inevitabilmente un intervento repressivo letale: ad esempio, utilizzando una serie di sensori di allarme altamente selettivi in grado sia di segnalare qualsiasi violazione del confine invalicabile sia di guidare i sistemi letali di repressione, in un nesso di causa-effetto che deve apparire talmente chiaro ed ineluttabile da dissuadere qualsiasi tentativo di violazione.
Quando, poi, il criterio di inibizione è riferito non all'isolamento od alla separazione di parti in conflitto, ma alla protezione di uomini e beni estranei al conflitto, bisognerà fare ricorso ad altre tipologie di armi non letali, sicuramente futuribili anche sotto il profilo meramente ideativo («maser», schermi di energia, barriere termiche, ecc.).
(c) Sistemi di impedimento temporaneo.
Riguardano tutta quella classe complessa di strumenti che sono in grado di rendere inoffensivi per un tempo limitato uomini e/o apparati. Tali mezzi possono essere, in teoria, di area o selettivi, nel senso che possono agire sia indiscriminatamente su tutto ciò che «esiste» in un certo territorio sia in maniera sempre più selettiva e specifica verso alcuni mezzi o determinate persone. Ovviamente, tali mezzi di impedimento richiedono di essere accoppiati a strutture in grado di sfruttare tempestivamente il vantaggio conseguito, portando a termine in maniera incruenta le operazioni militari e/o di polizia che hanno reso necessario l'impiego di tale tipologia di arma non letale.
(d) Sistemi di impedimento contro mezzi.
Tale classe di armi non letali ha il compito di rendere inoffensiva la capacità bellica dell'avversario, salvaguardando in maniera praticamente totale le vite umane sia proprie sia dell'avversario. In linea teorica, sarebbe auspicabile lasciare integro e funzionale anche tutto il sub-strato infrastrutturale ed economico del territorio sottoposto all'impiego di questa classe di armi.
Il criterio della necessariamente elevata selettività delle armi non-letali è un motivo ricorrente in tutta la rassegna delle possibili tipologie di tali armi innovative. La caratteristica di selettività, in effetti, è estremamente difficile da conseguire e risulta strettamente legata al livello di sofisticazione tecnologica del sistema (e quindi sia ai costi di sviluppo e di approvvigionamento correlati, sia alla pericolosità connessa ad un impiego scorretto).
Le armi non-letali sono «fattibili» e, in piccola parte, già disponibili. Ma quanto oggi esiste è caratterizzato da una certa «rozzezza» di impiego proprio per quanto attiene o alla selettività o al reale grado di non letalità. Ad esempio, i gas dotati di capacità di inabilitazione temporanea, largamente impiegati in operazioni di pubblica sicurezza, in effetti possono risultare letali se nella zona di disseminazione risiedono individui fisicamente deboli; né è facilmente concepibile un gas in grado di inabilitare selettivamente un individuo rispetto ad un altro casualmente prossimo. Va anche citato il problema del rispetto dei trattati sulle armi chimiche dove non necessariamente la certificazione di non letalità può ammetterne automaticamente l'uso sul piano internazionale da parte di una forza pur legittimata.
Rendere selettive le armi non-letali comporta, in effetti, di considerare solo alcune limitate classi delle stesse, e spingere la sofisticazione tecnologica oltre a quanto oggi disponibile. Se quest'ultimo aspetto non è teoricamente un problema (in quanto la disponibilità tecnologica è funzione della qualità della domanda), più complesso è il discorso economico al riguardo degli investimenti necessari. I costi di sviluppo, poi, vengono ulteriormente aggravati dalla costruzione di sistemi e procedure di controllo connessi al rischio intrinseco di diffusione di tali mezzi o all'uso improprio che ne potrebbe essere fatto.
Sintetizzando quanto fino ad ora espresso, si può dire che al momento è possibile svolgere azioni di «polizia internazionale» solo ricorrendo al potere coercitivo delle armi letali oggi in dotazione. Tale potere dissuasivo-coercitivo si è dimostrato del tutto inefficace, spesso controproducente e, comunque, non adeguatamente graduabile. L'introduzione del concetto di arma non-letale e la disponibilità di queste ultime sono fattori potenzialmente in grado di fornire la giusta graduale flessibilità all'intervento.
Il potere decisionale a livello politico e strategico vedrebbe così notevolmente ampliati gli strumenti a propria disposizione per la definizione delle iniziative. Va ricordata al riguardo l'impotenza sperimentata dai governi europei e della Nato in merito al caso bosniaco. Per essi l'alternativa si è ridotta al non fare niente o fare tutto, ambedue ipotesi inaccettabili. Si è tenuta così comunque una via di mezzo che si è rivelata poco efficace sul piano dell'incisività nel convincere le parti a cessare i conflitti (embargo, pressioni diplomatiche, presenza di truppe Onu con regole di ingaggio assolutamente neutraliste, ecc.). La disponibilità di un arsenale non-letale avrebbe potuto permettere interventi di regolazione del conflitto certamente più efficaci senza, peraltro, implicare un'azione militare massiccia densa di problemi.
'
. I sistemi di imputabilità come categoria del
non-letale che può essere sviluppata per prima e con minori difficoltà diplomatiche.
La categoria delle armi non letali risulta di evidente potenziale interesse per tutte le operazioni umanitarie e di pacificazione. A fronte di questa asserzione scarsamente confutabile, si contrappongono alcune valutazioni di varia natura che indicano quanta ricerca debba essere ancora compiuta non solo per ottenere la disponibilità di tali sistemi, ma soprattutto per dominarne l'impiego in modo tale da non produrre conseguenze indesiderate, o più problemi di quanti ne vengano risolti. Lo stato della ricerca tecnologica è molto avanzato nella materia, in particolare negli Stati Uniti, ma quello della ricerca sui metodi e scenari applicativi è appena agli inizi.
A questo secondo livello siamo solo in grado di impostare alcune domande per guidare ulteriori e successive analisi. In particolare:
- quale è il livello di fattibilità reale di armi non letali, specie se ad alta selettività?
- quali garanzie si hanno sul fatto che le armi non letali non si ritorcano contro chi le ha concepite? E ciò sia sul «campo» sia come impiego improprio per azioni autoritarie, destabilizzanti o di semplice malavita più o meno organizzata;
- quale è il livello di «moralità accettabile» delle armi non letali? Quali i trattati internazionali da rinegoziare a seguito dell'introduzione di alcune classi di esse? Ad esempio, tutta la categoria di mezzi non letali andrebbe accuratamente studiata e dotata di una matrice normativa, non solo per definire la reale non letalità e le limitazioni di impiego, ma soprattutto per studiare l'effetto (anche nel tempo) di tali mezzi sul territorio, sull'uomo e sui mezzi. Vi potrebbero essere, infatti, problemi di contaminazione non calcolabili e di impatto ecologico notevole. Sempre sotto il profilo della «moralità accettabile», il discorso è ancor più complesso, in quanto la sensibilità individuale a certi metodi, specie di controllo o limitazione della libertà, è altamente variabile da uomo a uomo, da etnia a etnia, da ambiente ad ambiente, da situazione a situazione.
Alcuni metodi non letali potrebbero essere considerati, paradossalmente, ancor più odiosi ed intollerabili di una decimazione o di una rappresaglia.
Tuttavia, in attesa di capire meglio gli scenari applicativi del non-letale, dobbiamo registrare che è certamente incominciata nel mondo occidentale la ricerca volta a creare una nuove generazione di sistemi d'arma la cui forza distruttiva possa essere modulata anche per ottenere maggiore consenso all'uso da parte di opinioni pubbliche ad alta sensibilità etica e informate pressoché in tempo reale da reti televisive globali.
Ma registriamo anche una tendenza accelerata verso tecniche di guerra a distanza ed altamente tecnologizzate. Le ricche società occidentali, in effetti, sono «debellicizzate» e non possono più difendere i loro interessi attraverso sacrifici di massa dei loro cittadini. Pertanto è pressoché scontato che i mezzi di difesa e di intervento armato risentano di una pressione a configurarsi in forma più automatica e remota. In questa tendenza c'è anche la spinta data dall'esigenza, per i paesi occidentali, di ottenere una superiorità assoluta e non più solo relativa nei confronti di possibili avversari. Pur più nutrito e meglio equipaggiato, un nostro fante che pattuglia Mogadiscio è pressoché al medesimo livello di un miliziano affamato che imbraccia un mitra della seconda guerra mondiale. Il secondo può quindi colpire il primo. Solo che il costo valoriale e politico di quella vita è molto maggiore. In tal senso l'estrema sofisticazione verso cui sta viaggiando la tecnologia degli armamenti non è altro che la conseguenza del fatto che la vita, nei paesi occidentali, ha un valore politico ed economico molto maggiore che negli altri.
Quindi, di fatto, siamo alle soglie di un «riarmo qualitativo» di nuovo tipo.
In questo abbozzo di tendenze vorremmo comunque segnalare con enfasi particolare lo sviluppo, nell'ambito del non-letale, di sistemi per il controllo informativo delle violazioni nella categoria dei sistemi di imputabilità sopra indicati. Tale settore è forse il meno esplorato dalla ricerca condotta in altri paesi, per lo meno con lo spirito adottato dagli esperti italiani che se ne sono occupati. Tale spirito enfatizza la necessità di costruire comunque, nelle crisi, una possibilità di promuovere il rispetto dei diritti e delle regole ottenendo il dominio informativo di un'area e trasferendo dati ad organi esecutivi dotati della legittimità politica e giuridica per attivare opzioni sanzionatorie, anche differite di molto nel tempo. Per esempio, in Bosnia sono successi massacri e violenze di ogni tipo contro cittadini inermi anche perché una delle tecniche di guerra da parte dei Serbi (e anche degli altri) implicava il terrorismo etnico per costringere all'abbandono del territorio. I responsabili di questi crimini di guerra non sono stati puniti perché si è voluto evitare l'intervento militare degli occidentali. Alla fine non saranno puniti se non in piccola parte perché non vi sono prove di quello che hanno fatto. Se vi fosse stato in opera un sistema di imputazione in grado di registrare in forma probante una buona parte degli eventi criminali (cosa come ribadito tecnologicamente possibile) tale possibilità di giustizia, pur posposta nel tempo, continuerebbe ad esistere. E probabilmente vi sarebbe stata una maggiore dissuasione nei confronti di questi atti. Appunto, il «diritto può essere un'arma».
Probabilmente
proprio per considerazioni di questo tipo, oltre a quelle più generali riguardo
i mezzi tecnici per irrobustire le azioni di pressione diplomatica, il nostro
governo, come detto nell'introduzione, ha proposto alla Nato di studiare le
possibilità di cominciare a mettere in campo sistemi sofisticati di controllo
informativo delle violazioni delle tregue e dei diritti (Violation Information System, VIS).
Riteniamo che una componente non-letale utile all'innovazione dei mezzi per il peacekeeping da sviluppare al più presto sia proprio quella dei sistemi di imputabilità. Tra i molti vantaggi, da immettere in una matrice razionale costi/benefici, va sicuramente considerato che tali sistemi sarebbero strumento di trasferimento della legalità, per intanto indiretto, in quei paesi dove per guerra in atto, o altri motivi, la legalità stessa è stata sospesa. Proponiamo, quindi, la priorità dello sviluppo di questo settore del non-letale proprio per l'enorme vantaggio etico, politico, dissuasivo e regolativo che esso può produrre.
Rilevanza della imputabilità nel Peace-keeping di 2° generazione
Le operazioni di Peacekeeping tradizionali sono fondate sul consenso e la collaborazione delle parti in causa e sull'uso solo passivo della forza in compiti di autodifesa. Esse si basano sulla cooperazione delle autorità locali, sulla non applicazione della legge di guerra nei territori di impiego (si veda l'operazione Provide Comfort nel Nord-Irak) e sulla limitazione di tutte le attività che possono far dubitare della natura neutrale ed imparziale dell'intervento internazionale.
Tra queste ultime attività vanno annoverate anche quelle di "intelligence", eccetto per quanto riguarda l'intelligence tattica a breve raggio per l'autodifesa della forza internazionale. Il termine intelligence è stato addirittura bandito, anche a livello operativo, dagli interventi ONU di 1° categoria, sostituendolo con quello di "military observers" e di "public information", al fine di non suscitare sospetti di interferenza con le prerogative nazionali dei paesi che accettavano un intervento d'interposizione di forza internazionali". Questo non significa che le potenze non continuino ad effettuare, a livello nazionale, un'attività di intelligence per la protezione delle proprie forze impegnate in operazioni multilaterali o per disporre delle informazioni necessarie per le loro decisioni politiche. Di solito, tuttavia, tali operazioni non hanno foinalità intrusive o condizionanti il teatro.
Le parti in causa, e generalmente gli Stati del Terzo Mondo si oppongono sia alla ricerca sistematica di intelligence, sia alla sua fornitura come base delle decisioni dell'ONU, anche perché, e dal loro punto di vista a ragione, temono che l'Occidente filtri le informazioni ad esempio quelle elettroniche e satellitari per propri interessi.
Di fatto nel Peacekeeping di prima generazione non é previsto l'uso dell'informazione come supporto sia per rendere più stabili gli accordi di tregua sia per tentare di regolare le violazioni dei diritti umani. In particolare non é previsto che le forze dedicate alla interposizione e regolazione nelle situazioni conflittuali usino un approccio attivo. In generale proprio la passività della metodologia di peacekeeping ha comportato i fallimenti vistosi di essa nei casi in cui é stata applicata (ex-Jugoslavia, intervento umanitario in Somalia e, parzialmente, in Mozambico).
Questo limite del Peacekeeping di 1° generazione può risolversi solo rendendo attivo e non passivo il ruolo delle forze multilaterali dedicate alla regolazione dei conflitti e vi sono due modi per farlo.
Il primo riguarda l'incapacitazione di tutte le forze belligeranti. Il che significa semplicemente attivare una vera e propria azione di guerra ed occupazione di un territorio assumendo il monopolio della forza nell'area. Ma, appunto, questa opzione implica un conflitto aperto e renderebbe di fatto impossibile l'accordo internazionale per attivare operazioni multilaterali di regolazione e contenimento dei conflitti.
Per questi motivi le operazioni di Peacekeeping devono trovare un ruolo attivo nei limiti dell'approccio positivo che possa essere accettato dalle parti o comunque riguardare una forma di intrusività che non implichi il conflitto aperto ed esplicito.
La capacità di attivare e gestire sistemi informativi messi al servizio delle funzioni regolative potrebbe essere la risposta a questo problema. In particolare l'instaurazione di un regime di certezza informativa al riguardo di quello che sta accadendo nel teatro conflittuale potrebbe essere un elemento capace di dare una maggiore potenza regolativa alle forze di intervento multilaterale.
L'ipotesi di lavoro é che il Peacekeeping di 2° generazione possa e debba evolvere lungo una linea che implichi la saturazione informativa di un teatro conflittuale.
L'impiego di "human intelligence" e di "tecno-intelligence" (IMINT, ELINT, ecc.), esclusa dalle operazioni di Peacekeeping tradizionale, è essenziale (come per il "Peace-enforcement"), per il Peacekeeping di 2° generazione. L'impiego sporadico della forza anche per l'autodifesa attiva, l'esigenza di "early warning", il monitoraggio delle armi pesanti, del disarmo o dell'evacuazione di contingenti stranieri, eventualmente l'attività investigativa di polizia giudiziaria, richiedono un'organizzazione capillare dell'intelligence che faccia capo al comando operativo dell'ONU, agente sul campo.
Ad esempio, la verifica di disarmo (come è capitato nelle UNPA dell'UNPROFOR 1, anche se si è trattato di un clamoroso insuccesso) presuppone un'attività ispettiva intrusiva, simile a quella prevista dagli accordi CFE o, su scala peraltro del tutto diversa, da quelli Open Skies.
Tali attività non vanno condotte solo a livello tattico, ma anche a quelli operativo e strategico e richiedono l'utilizzazione di mezzi che non possono essere solo segreti.
Le operazioni di Peacekeeping di 2° generazione vanno distinte nettamente dall'enforcement (dove le forze hanno un mandato che implica il conflitto aperto) e devono basarsi su protocolli dettagliati, concordati con le parti in causa. In caso contrario, potrebbero provocare un'escalation immediata (come è capitato per i radar controfuoco del contingente ucraino in Bosnia) e compromettere la stessa sicurezza delle forze internazionali.
Alcuni esperti pensano che le operazioni di Peacekeeping di 2° generazione siano impraticabili, data l'impossibilità del Consiglio di Sicurezza di fissare mandati e regole d'ingaggio non ambigue, con rischio costante di innescare un incontrollabile processo di "escalation". Il problema fondamentale al riguardo è rappresentato dall'incontrollabilità delle milizie irregolari da parte dei loro dirigenti politici, incontrollabilità che diminuisce enormemente la capacità dissuasiva dell'intervento internazionale. Quest'ultimo ha infatti un effetto deterrente, solo qualora esista una razionalità e quindi una prevedibilità delle reazioni e, soprattutto, un'identificabilità e quindi un'imputabilità ben precisa per le violazioni degli accordi, per gli attacchi alle forze intemazionali o per crimini.
Per quanto detto, un sistema di imputabilità delle violazioni è volto ad accrescere l'efficacia degli interventi internazionali consolidando la credibilità dell'ONU.
Il Peacekeeping è assimilabile ad operazioni di polizia svolte da forze internazionali e comporta l'imposizione della legge con l'impiego quanto più limitato possibile della forza. L'entità della forza da impiegare dipenderà dal livello di consenso e di cooperazione delle parti contrapposte, che è spesso del tutto imprevedibile.
Si tratta di operazioni che si svolgono in un contesto di notevole incertezza e che richiedono una grande flessibilità di gestione a live!lo sia politico-strategico sia operativo-tattico, ad esempio con l'adeguamento degli obiettivi e delle regole di ingaggio al mutamento di situazione. La loro efficacia dipende quindi dalla disponibilità di elevate capacità di "intelligence" sia tecnologica che umana. Solo essa può consentire previsioni, adeguamenti tempestivi del dispositivo a scopi sia di disssuasione che di sicurezza, interventi selettivi, ecc.. Un sistema di imputabilità VIS (Violation Information System) basato sulla capacità di saturare informativamente il teatro operativo deve sia soddisfare tali esigenze cruciali sia dare all'intervento un valore aggiunto caratterizzato come capacità di certificare una qualsiasi violazione.
Le architetture realisticamente proponibili per il sistema VIS non dovrebbero essere costruite a livello ONU o CSCE, che non hanno la capacità operativa da un lato e la disponibilità di fondi dall'altro lato, per poter pensare di approwigionare e di gestire logisticamente ed anche operativamente un sistema tanto complesso.
Esso può essere configurato solo come un contributo della NATO (utilizzabile eventualmente anche dall'UEO con protocolli d'intesa per l'impiego di "assets" NATO) all'ONU e eventualmente alla CSCE, utilizzando sostanzialmente le potenzialità dell'NACC (Nord Atlantic Cooperation Council) allargata secondo le prospettive contemplate dall'Agenda per la Pace (Partnership for Peace: PFP).
Per esempio, nel caso della ex-Jugoslavia, un sistema VIS potrebbe essere in questo contesto assimilato ad un perfeziona.mento del contributo dato dalla NATO all'ONU, con il posto comando mobile Northag, distaccato con personale ed equipaggiamenti a Zagabria a supporto C3 del comando UNPROFOR e con strutture flessibili per poter incorporare personale dei paesi non NATO partecipanti alle operazioni ONU.
Vedremo e valuteremo nei capitoli successivi come i sistemi di imputabilità possano essere organizzati sia sul piano tecnico che politico.
3. VALUTAZIONE STRATEGICA E TECNOLOGICA
DEI SISTEMI DI IMPUTABILITA'
3.1. Valutazione politico-strategica
I mezzi di controllo informativo di un territorio sono già noti, vastamente impiegati ed afferenti alle cosiddette attività di "intelligence". Accanto a questi mezzi già tradizionali possono, tuttavia, possono operare sistemi integrativi ed innovativi ad alta tecnologia quali:
(a) I satelliti, o meglio le reti di satelliti, capaci di riportare in modo chiaro e tempestivo gli avvenimenti ed i dati richiesti, equipaggiati con:
- sensori radar progettati per fornire immagini della superficie terrestre con una risoluzione paragonabile a quella delle riprese fotografiche, anche di notte ed in qualsiasi condizione atmosferica;
- sensori di sorveglianza per la visione notturna, la rilevazione e l'inseguimento di oggetti con sistemi di visione termica;
- sensori con capacità di controllo ottico;
- apparati di sorveglianza elettronica, dedicati alla raccolta di dati relativi alle comunicazioni ed agli apparati radar.
(b) Sistemi di sorveglianza aeroportati dotati di:
- apparati elettro-ottici avanzati ad immagine visiva;
- apparati di sorveglianza ed intelligence elettronica e radar;
(c) Velivoli non pilotati capaci di volare per molte ore, ricuperabili dopo la missione o in grado di trasmettere in tempo reale immagini TV o di altro tipo utile alle stazioni a terra.
Tutti questi mezzi, a cui vanno aggiunti quelli tipici dell'intelligence tattica a terra come riportati nello Handbook of Intelligence, Appendix B: Present Tactical IEW Equipment, attualmente sono già utilizzati dai Paesi militarmente avanzati in operazioni belliche classiche. La loro validità è elevata per il controllo territoriale, ma scarsamente selettiva sia per modestia di potere risolutivo sia per discontinuità di osservazione. Tuttavia il loro potenziale é sufficiente per garantire un certo controllo delle macroviolazioni di tregue ed accordi.
La realizzazione di un tale primo livello di controlli non implica, pertanto, la costruzione di nuovi sistemi, ma la riconfigurazione di quelli già esistenti. In particolare sarebbe possibile dualizzare tali sistemi aggiungendo alla loro missione ordinaria di controllo informativo per fini militari anche quella di controllo delle violazioni.
Quindi esiste già negli apparati dei Paesi NATO un fattore di raffinamento degli accordi di tregua immettendo il criterio della accettazione della intrusività di un terzo controllore tecnologicamente esclusivo tra le parti secondo certe regole e sanzioni in caso di rilevamento delle violazioni stesse.
Su questo piano il problema non é tanto la disponibilità tecnologica quanto quella politica dei Paesi che possiedono tali sistemi. Di fatto, in ambito NATO, solo gli Stati Uniti sono in grado di fornire gli apparati ncessari e dovrebbero essere convinti a metterli a disposizione, pur con gli ovvi limiti di mantenimento del controllo nazionale sugli stessi. Ma il problema di architettura politica del sistema non si ferma alla sola disponibilità delle nazioni dotate.
Esso riguarda anche il problema di chi difende l'apparato informativo, dotato di un profilo intrusivo, da eventuali controreazioni. E tale difesa deve essere forte per evitare l'annullamento dei mezzi a portata dell'avversario o altre contromisure. Quindi chi partecipa all'azione informativa deve essere anche inserito in un apparato militare di difesa e dissuasione. La complicazione di tale punto é tale che solo la NATO é in grado di attivare il ciclo completo politico-tecnico di tale riconfigurazione possibile dei sistemi informativi esistenti.
Ancor più complesso é il caso di sistemi antiviolazione dedicati a rilevare in forma probante crimini individuali. Qui la prestazione é più raffinata e richiede la messa in opera di sistemi aggiuntivi la cui tecnologia certamente é nota, ma non ancora operativa. Inoltre la densità delle reti di osservazione e rilevamento deve esere molto alta. Infatti l'effetto dissuasivo sull'individuo (cecchino, guerrigliero, miliziano, ecc.) é proporzionale alla probabilità di essere osservato e registrato mentre compie la violazione. Tale prestazione tecnologica é fattibile (nel prossimo futuro), ma apputo, mettendo in campo sistemi più sofisticati di quelli disponibili e quindi a costi molti elevati.
Molto più importante, poi, é il punto che riguarda la certificazione dei dati di violazione in base agli standard di accettabilità dell'organo politico e/o giuridico che é preposto al caso di intervento internazionale. Tale tecnologia non deve solo fornire il dato di violazione per creare la situazione di imputabilità delle violazioni, ma anche confezionarlo secondo standard di riconoscimento da parte di soggetti politici sovranazionali, quali l' ONU, e giuridici. Tale requisito impone non solo un'interazione tra tecnologia e codici procedurali, ma una vera e propria evoluzione delle regole formali del diritto internazionale, certamente, al presente, non adeguate a ricorrere a tale risorsa.
L' oggetto di progettazione più importante nell' idea di sviluppare sistemi VIS in ambito NATO, per usi in operazioni PK ONU/CSCE, riguarda l' uso politico dei dati imputativi. In particolare sembrano fattori critici:
- il profilo di diritto internazionale dell'intrusività VIS (mentre é teoricamente facile attribuire il potere investigativo ad una magistratura sovranazionale, é tutta da costruire la parte sanzionatoria)
- il problema della decisione di dischiudere i dati di imputabilità in relazione alle opportunità (sensibilità di ambiente diplomatico sono ovviamente preoccupate della possibilità di togliere l' ambiguità dalla scena negoziale e quindi la flessibilità, anche se il poter decidere cosa dischiudere e cosa no rafforzerebbe l' azione di pressione diplomatica);
- l' impiego del potenziale VIS nella definizione delle tregue ed accordi: l'accettazione delle parti di essere intruse può essere una grande risorsa di diplomazia preventiva, ma ciò impone anche una grande affidabilità certificante dei controlli VIS per evitare imbrogli (e qui probabilmente bisognerebbe costruire fitte reti a terra integrative di quelle remote come sviluppo delle funzioni di "osservatore");
Va anche sottolineato che i sistemi VIS sono una componente non-letale di una nuova forma di strategia della superiorità. E come tale la cosa sarà subito percepita da chi può esserne oggetto. Per esempio l'inserimento della responsabilità individuale (provata, archiviata in un organo indagante ed eventualmente riportata dai media in forma inequivocabile) in un'azione bellica è una novità assoluta che arricchisce i potenziali di dissuasione. Ma ad ogni passo di superiorità corrisponde una contromisura: in questo caso VIS é un attivatore probabile di contromisure terroristiche e di controdissuasioni sugli investiganti.
Di fatto, comunque la si voglia mettere, i sistemi di imputabilità vanno considerati delle vere e proprie armi e come tali vanno valutati. Anzi, usare il diritto come arma - che é l'idea chiave dei sistemi di imputabilità- implica la concezione e l'applicazione di una super-arma psicologica. Infatti la capacità di certificare ed imputare le violazioni implica definire come giusta l'eventuale ritorsione e quindi ottenere il vantaggio psicologico del consenso da parte delle opinioni pubbliche.
In sintesi, la decisione di applicare i sistemi VIS riguarda la scelta di dar vita ad una nuova generazione di armi non-classiche e come tale va valutata.
L'eventuale sviluppo dei sistemi VIS é idea che appartiene alla stessa famiglia concettuale di quella delle armi non-letali: i sistemi VIS definirebbero una "guerra giusta" e le armi non-letali permetterebbero una "giusta condotta della guerra giusta". Il punto, quindi, riguarda lo sviluppo di mezzi di superiorità strategica per nazioni che sono fortemente vincolate da fattori di opinione pubblica e relativa sensibilità agli aspetti morali della guerra. Ambedue i tipi di armi, il diritto e i mezzi non-letali, permetterebbero all'Occidente di combattere guerre che ora non può combattere. Quindi i sistemi VIS vanno visti, di fatto, come nuovi potenziali di superiorità strategica che rielaborano i vincoli psicologici che limitano il potenziale occidentale di impiego della forza.
3.2. Le possibilità tecnologiche in relazione ad
ipotesi di impiego
Un possibile sistema VIS può basarsi su un ampio spettro di tecnologie ed attività di intelligence. Tuttavia la prima sfera di tecnologie da prendere in considerazione riguarda sistemi di osservazione remoti che evitano il più possibile contatti tra osservatore ed osservato.
Concentrandosi sui mezzi di osservazione, si può notare immediatamente che tutta l'attività si basa su una serie di sensori sofisticati e specializzati, integrati in idonee piattaforme, queste ultime quasi sempre operanti dall'alto (senza per altro escludere sistemi tattici EWS a terra).
Tra i sensori più impiegati vanno citati quelli ottici, elettroottici ed a microonde, i quali sfruttano l'emissione naturale dei corpi (a causa della loro costituzione o della riflessione delle radiazioni cosmiche) o la riflessione di onde con cui i corpi sono artificialmente illuminati.
Tra le piattaforme si citano quelle di superficie, quelle operanti nell'atmosfera (velivoli pilotati e non) e quelle spaziali.
Il potere risolutivo dei sensori attuali (ossia la loro capacità di osservare fin nei dettagli più minuti) è per certi versi straordinario, anche se risulta, ovviamente, funzione inversa sia della distanza da cui il sensore osserva il territorio sia dell'"ampiezza di campo" (ossia quella dimensione della scena che si osserva, significando che, a parità di condizioni, la risoluzione massima si ottiene sui campi più piccoli).
Visto che alte risoluzioni si ottengono solo su campi piccoli e da breve distanza tra sensore ed obiettivo, ne consegue che la porzione di territorio osservabile con efficacia è limitata e, per di più, tale osservazione è effettuabile in maniera discontinua, nel senso che si otterrà il risultato di "vedere" solo e soltanto quando il sensore è puntato permanentemente sull'obiettivo, cosa praticamente impossibile da realizzare se il sensore è imbarcato su mezzi atmosferici o spaziali.
Ma anche nel caso di un sensore fisso di superficie il risultato sarebbe sempre modesto, a causa della già citata ristrettezza di campo visivo e quindi della necessità, per controllare anche una piccola regione, di un numero spropositato di sensori, la cui gestione, fra l'altro, comporta problemi enormi di controllo ed elaborazione della gran massa di dati disponibili.
Così, nella pratica, si è costretti a ricorrere ad una serie di compromessi che non derivano da una vera e propria insufficienza tecnologica, ma da un complesso di fattori, primo dei quali quello dei costi sia in termini economici sia di quantità di risorse umane.
Nella tabella allegata si riportano le prestazioni medie attuali di tali mezzi, sotto il profilo del potere risolutivo dei sensori, della copertura di campo o della portata alla massima risoluzione e della frequenza media con cui tali sensori possono controllare il territorio.
Per una migliore comprensione della tabella si precisa che la risoluzione dei vari sensori è espressa in capacità di "scoperta", "riconoscimento" ed "identificazione" cosi' definite:
- scoperta: determinazione dell'esistenza di un oggetto, senza giungere al suo riconoscimento (ad es. impossibilità di distinguere se l'oggetto è un camion o un velivolo in sosta);
- riconoscimento: possibilità di definire l'appartenenza di un oggetto ad una determinata categoria (velivolo, carro armato, veicolo, nave ecc.);
- identificazione: possibilità di stabilire la precisa identità dell'oggetto (ad es. F15 e non MIG-21, postazione missilistica e non centro radar campale, ecc.).
Quando compaiono in tabella per lo stesso sensore più capacità (ad es. scoperta/riconoscimento), si intende che queste sono le minime e massime in funzione delle dimensioni dei vari oggetti.
Nel grafico allegato è stato schematizzato il livello di utilità dei vari sistemi elencati nella tabella impiegabili in funzione dell'evolversi di una situazione da uno stato di pace ad uno di conflitto, passando attraverso un periodo di crisi.
Alla luce di quanto espresso, la fattibilità tecnologica dei sistemi VIS è funzione dello scopo di dettaglio che si vuole ottenere. In via estremamente schematica, si può dire che esistono più livelli di prestazione ottenibili, in funzione di due fattori cardine: l'ampiezza della zona che si intende osservare e la risoluzione che è necessario ottenere. Combinando tali fattori si ottengono 4 possibili scenari:
- campi contenuti a media risoluzione;
- campi grandi a media risoluzione;
- campi contenuti ad alta risoluzione;
- campi grandi ad alta risoluzione.
La classificazione si amplia ulteriormente in funzione della "continuità" di osservazione che si vuole ottenere, nel senso che tanto maggiore è la frequenza di ripresa, tanto maggiore è la complicazione dello strumento idoneo a soddisfare l'esigenza.
Un'analisi dettagliata di tutti i possibili scenari derivanti dalla combinazione dei suddetti fattori è molto complessa e, pertanto, ci si limiterà a valutare la fattibilità tecnologica di possibili sistemi finalizzati a specifiche missioni, sino ad evidenziare se e quanto gli attuali sistemi militari di osservazione siano impiegabili.
a. Il controllo non continuo di zone limitate a media risoluzione.
Lo scenario classico che si verifica quando, ad esempio, è necessario creare un ristretto corridoio di sicurezza per il procedere di forze di pace o di trasporti umanitari (terrestri o aerei).
In tal caso si deve stabilire il percorso con largo anticipo e, con una serie di mezzi di osservazione classici, provvedere a individuare la presenza di possibili mezzi di offesa, per poi eventualmente eliminarli e/o mantenere la situazione di controllo per la sola durata della missione, limitatamente alla zona interessata al procedere della missione ed a quelle immediatamente limitrofe.
Un simile sistema è, oggi, del tutto fattibile e si articola su satelliti (per un primo esame del territorio), UMA (Unmanned Aircraft) per la verifica e la bonifica preventiva, velivoli dotati sia di sensori di osservazione sia di mezzi di offesa (per fiancheggiare e proteggere la missione).
Ovviamente il quadro, anche sotto il profilo dell'impiego combinato di più mezzi, è un pò meno semplicistico, ma il giudizio di fattibilità permane.
b. Il controllo di ampie regioni a media risoluzione.
L'attività tipica dell'osservazione di unità combattenti organiche, di dimensioni non trascurabili o poco mobili (colonne corazzate, batterie e lanciamissili fissi, unità regolari inquadrate ecc., ma non di "commandos", batterie di piccolo calibro, SAM individuali o di medie dimensioni ad alta mobilità).
Se non si richiede una grande assiduità di osservazione (all'incirca un aggiornamento globale ogni 8-10 ore) il sistema in grado di soddisfare l'esigenza è ancora da ritenersi fattibile: si tratta di accoppiare più controlli locali gestendo i dati in maniera unitaria. Il giudizio di fattibilità cade rapidamente, però al diminuire delle dimensioni delle unità che si vogliono controllare ed al crescere della frequenza con cui si intende aggiornare la situazione.
c. Il controllo ad alta risoluzione.
Con tale controllo si intende spingere l'osservazione a livelli di tale risoluzione sino alla identificabilità ed imputabilità individuale. Quale che sia la limitatezza della zona da controllare e la discontinuità accettabile, le tecnologie alla base degli attuali sistemi di osservazione sono insufficienti. In effetti, si potrebbe (oggi come oggi) controllare ad esempio un quartiere di una città o poco più, avvalendosi di un numero molto elevato di sensori diversi opportunamente dislocati, in volo ed a terra, ed integrati. Tale sistema, di evidente complessità, per poter funzionare presuppone inoltre un atteggiamento quantomeno passivo della stragrande maggioranza della popolazione della zona.
3.3. Ipotesi di sviluppo dei sistemi VIS con tecnologie innovative
I prossimi 10-20 anni più che l'avvio di importanti programmi per la realizzazione di nuove piattaforme d'armamento saranno caratterizzati dall'aggiornamento progressivo delle capacità e dell'affidabilità dei sistemi attuali (o di quelli di prossimo sviluppo).
In tale contesto si avrà l'integrazione sulle piattaforme di apparati con avanzate capacità di targeting, in grado di individuare e riconoscere obiettivi a bassa osservabilità e/o non cooperativi. Forse la più grande sfida nel campo della tecnologia sarà proprio quella che riguarderà l'elaborazione dei segnali derivati dalla ricognizione automatica degli obiettivi. Grazie all'avvento di computer avanzati si avranno nuove capacità nell'area della segmentazione delle immagini, dell'individuazione ed estrazione delle caratteristiche principali e della ricostruzione delle forme.
L'aumento della velocità e della complessità della battaglia comporterà l'esigenza di integrare dati ottenuti da diversi sensori per discernere le informazioni riguardanti la località, i movimenti ed i mezzi (o gli uomini) coinvolti.
Le ricerche in tali settori comporteranno notevoli miglioramenti potenziali ai sistemi VIS attualmente fattibili rendendo più raggiungibile l'obiettivo ideale di essi, cioé di disporre di mezzi capaci di identificare analiticamente i responsabili di violazioni di regole, accordi o diritti umani in una data zona, anche ampia.
SISTEMI PER LA SORVEGLIANZA E
L'ACQUISIZIONE DI OBIETTIVI
TIPO DI SISTEMA |
SENS0RE |
LIVELL0 DI RESOLUZIONE |
COPERTURA/PORTATA (1) |
PERMANENZA SULLO SCENARIO |
Satellite Ottico R 20
Km X 20 Km Passaggio ogni 24-36 H
Infrarosso S " Passaggio ogni 24 H
Radiometrico S " Passaggio ogni 24-36 H
Radar (SAR) S/R " Passaggio ogni 24 H
Velivolo
Pilotato Ottico/Fotografico I Fino
a 10 Km Permanenza costante per 4-6 H
EO
(TV, IR) R " " 50 Km "
I " "
5 Km
Permanenza
continuativa fino a
ESM
(2) S/R/I "
" 400 Km " 18 H (3)
AEW (4) S/R " " 400 Km " 18
H
SAR(Joint Stars)(5) S "
" 300 Km " 18 H
R " " 200 Km
Velivolo Non
Pilotato Ottico/Fotografico I "
" 10 Km " 8-12 H
EO
(TV, IR) R/I 30-50 Km " 8-12 H
SAR S/R " " 50 Km " 8-12 H
NOTE:
S = Scoperta, R =
Riconoscimento, I = Identificazione.
(1) Localizzazione
di velivoli, postazioni missilistiche, veicoli, artiglierie).
(2) Sorveglianza
elettronica in grado di rilevare attivita' di sistemi in trasmissione (radio,
radar).
(3) Con rifornimento
in volo.
(4) Scoperta e
riconoscimento di obiettivi aerei e navali.
(5) Scoperta e
riconoscimento di obiettivi mobili e fissi (carri, veicoli, elicotteri).