La nuova economia Agenda per la ricerca futura sui fenomeni e sull'architettura politica del mercato globale di Carlo Pelanda |
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The Center for the Study of Global Issues
GLOBIS
European Branch
The University of Georgia
1997
Ricerca patrocinata dalla Fondazione Eni Enrico Mattei
La responsabilità del testo è da attribuirsi esclusivamente all'autore
Sommario
CAPITOLO 1 La sfida della nuova economia: la rivoluzione competitiva
1.1. I motori della globalizzazione: scenario storico-descrittivo
1.1.1. La semiglobalizzazione e la genesi del nuovo capitalismo
1.1.2. La minore pressione competitiva nel mondo della semiglobalizzazione
1.1.3. La nuova sovranità del capitale
1.1.4. L'improvviso aumento di scala del mercato
1.1.5. I motori culturali della globalizzazione
1.1.6. Motori tecnici: la nuova mobilità delle risorse
1.1.7. Il turbocapitalismo come origine della globalizzazione
1.2. La rivoluzione competitiva
1.2.1. Le tre ondate competitive
1.2.1.1. Prima ondata: selettività nei settori ad alta intensità di manodopera
1.2.1.2. Seconda ondata: selettività generalizzata in base all'efficienza
1.2.1.3. Terza ondata: selezione competitiva per aleatorietà del mercato
1.2.2. La competizione sul piano dell'offerta di stabilità
1.2.3. Fattori competitivi emergenti nel prossimo futuro
1.2.3.1. Il settore manifatturiero di nuova generazione
1.2.3.2. La biorivoluzione
1.2.3.3. La rivoluzione dei nuovi materiali
1.2.4. La nuova competizione indotta dal mutamento sociale
1.2.4.1. Mobilità delle persone
1.2.4.2. I nuovi standard culturali
1.2.5. Il nuovo mercato della gestione simbolica
1.2.5.1. Il probabile fenomeno delle ondate comunicative
1.2.5.2. Dalla tecnologia delle reti all'ingegneria dei contenuti
1.2.5.3. La riforma del tempo
1.2.5.4. Dagli oggetti alle situazioni
1.2.6. La violazione di teorie consolidate
CAPITOLO 2 La necessità di una nuova architettura politica nazionale: dallo Stato
sociale a quello della crescita.
2.1. Il crollo dei modelli sbilanciati per eccesso di garanzie
2.1.1. L'implosione del modello europeo
2.2. Il successo competitivo del modello liberista
2.2.1. La ricerca di un modello liberista socialmente efficace
2.3. Dallo Stato sociale allo Stato della crescita
2.3.1. La complessità politica della riforma
2.3.2. La comunità competitiva
CAPITOLO 3 La necessità di una nuova architettura politica del mercato globale
3.1. La crescente instabilità globale: aspetti geopolitici e geoeconomici
3.1.1. L'asimmetria sul piano dei costi della democrazia
3.1.2. La ricombinazione politica del "post-post-guerra fredda"
3.1.2.1. Il "decoupling" tra Stati Uniti ed Europa
3.1.2.2. L'emergere dei giganti asiatici
3.1.2.3. Lo scenario dell'America latina e centrale
3.1.2.4. Russia, la madre di molte instabilità
3.1.2.5. La chiusura dell'Islam
3.1.2.6. I problemi di collocamento internazionale del Giappone
3.1.3. La contrazione del potere regolativo globale degli Stati Uniti
3.1.3.1. Sul piano geopolitico
3.1.3.2. Sul piano geoeconomico
3.1.3.3. Lo svuotamento della multilateralità
3.2. La ricerca dell'architettura politica del mercato globale
3.2.1. I tre requisiti
3.2.1.1. La ricostruzione della forza ordinatrice
3.2.1.2. Sistema che non ammette punti di arresto
3.2.1.3. Continuità della civiltà politica occidentale
3.2.2. Il disegno: la nuova architettura per la Pax globale
3.2.2.1. Le unità di base del modello: gli Stati nazionali
3.2.2.2. Dall'ordinamento debole a quello forte: la transcostituzione economica
3.2.2.3. I contenuti ordinativi
3.2.3. Il motore politico: un nuovo sistema atlantico
Capitolo 1
La sfida della nuova economia: la rivoluzione competitiva
Nella seconda metà degli anni 90 ogni singolo territorio del pianeta, piccolo o grande che sia, è sempre di più in relazione competitiva con tutti gli altri per attrarre più capitali, per non perdere i propri e per generare più valore aggiunto dall'impiego produttivo di essi. Ogni singola unità produttiva e commerciale si trova a fronteggiare una maggiore concorrenza. La globalizzazione è certamente un fenomeno complesso. Ma lo si può semplificare mettendone in luce una conseguenza molto chiara. Tra il mondo della fine degli anni 70 e quello degli inizi degli anni 90 la differenza più evidente è quello dell'aumento della pressione competitiva. Ciò giustifica l'uso del termine di "nuova economia" ed una sua prima caratterizzazione come "rivoluzione competitiva".
Prima di affrontare con certo dettaglio lo scenario attuale e proiettivo della nuova competitività - nella seconda parte di questo capitolo - si ritiene utile cercare di inquadrare storicamente il fenomeno della globalizzazione per individuarne i motori culturali, tecnici e politici che sono all'opera
1.1. I motori della globalizzazione: scenario storico-descrittivo
1.1.1. La semiglobalizzazione e la genesi del nuovo capitalismo
Tentare di capire il fenomeno di globalizzazione in atto significa prima di tutto cercare il codice genetico del nuovo capitalismo che ne è il motore. Se è vero che il fenomeno della globalizzazione è esploso vistosamente a metà degli anni 90, d'altra parte non si può pensare che sia nato dal niente. E la tesi qui perseguita è che alla fine degli anni 40 si sia formato un nuovo tipo di capitalismo che già conteneva i semi della successiva esplosione globalizzante e conseguente rivoluzione competitiva.
Questa impostazione è sostenuta dai dati. Fatto 100 il volume del commercio internazionale nel 1950, lo si trova a 1600 nel 1995. Ma il dato importante è che la correlazione tra apertura dei mercati e quantità del commercio internazionale ha avuto una crescita costante. Usando lo stesso parametro di partenza detto sopra, circa 400 nel 1970, quasi 800 nel 1980, circa 1200 nel 1990 fino, appunto, al 1600 del 1995.Per inciso, va anche notato che il rapporto tra volume del commercio mondiale e crescita del prodotto lordo del pianeta è salito dal 7% del 1950 al 15%. del 1995, con un aumento del peso del primo sul secondo più accelerato nel recente passato. Si nota come dagli inizi degli anni 90 la globalizzazione abbia aumentato il ritmo. Ma non si può dire che sia cominciata in quegli anni, ipotizzando una discontinuità totale con il periodo precedente in termini di motore politico-culturale-economico all'opera.
Da cosa dipende il fenomeno della progressiva globalizzazione? Dal fatto che ci sia stata una progressiva pressione politica per aprire i mercati nazionali e togliere le barriere al commercio internazionale. E questo fattore politico dobbiamo cercare di capirlo molto bene. Ovviamente non basta. Molti altri fattori hanno importanza strutturale. E li vedremo. Ma dovendo scegliere il fatto principale su cui far ruotare la scenario, pare ovvia la decisione di puntare sul tipo di architettura politica del mercato internazionale che si è costituita dagli anni 50 in poi. Essa è la culla in cui è nato il secondo processo di globalizzazione di questo secolo. Il primo si è interrotto nel 1914 ed anni successivi a causa della guerra e successiva rinazionalizzazione delle economie. Tra il 1945 ed il 1950 si è affermato un potere mondiale che ha spinto di nuovo il processo di internazionalizzazione e liberalizzazione dei mercati. Ed è in questo periodo che possiamo individuare una discontinuità. Certo, nella seconda metà degli anni 90 si percepisce l'arrivo di una seconda discontinuità.Quella che chiamiamo "rivoluzione competitiva" o nuova economia, in senso più allargato. Tuttavia appare essere più una accelerazione del sistema nato negli anni 50 che un fatto totalmente nuovo. E' sempre molto difficile definire con nettezza continuità e discontinuità nella storia (così come nell'evoluzione). E' meglio vedere il tutto con certo dettaglio evitando un eccessivo ricorso a definizioni macroscopiche troppo semplificate.
Nel 1945 il mercato interno statunitense aveva cumulato una enorme quantità di capitale (in forma di denaro, risorse naturali, tecniche, culturali ed umane) e costituiva da solo quasi il 75% dell'economia mondiale. La vittoria nella guerra e la conseguente assunzione di una posizione di dominio mondiale mise in contatto questo sistema nazionale con il resto del mondo. Il differenziale di potenza militare, tecnica e simbolica fece sì che questo contatto si tramutò di fatto nell'esportazione al resto del mondo dello specifico modello statunitense di capitalismo (e di società, in generale) nonché nella configurazione di un sistema internazionale basato sulla dominanza dei suoi criteri.
Gli scopi strategici di costruire una nuova alleanza globale per contrastare i sovietici impedirono agli Stati Uniti di tornare nell'isolazionismo come fecero dopo la prima guerra mondiale. Il "rientro" avrebbe comportato il lasciare libero spazio alla potenza sovietica. Quindi l'interesse nazionale statunitense fu definito come organizzazione di un sistema mondiale di alleanze utili al contenimento dei sovietici. Ciò generò un'azione sia politica (esempio, formazione della NATO) che economica finalizzata a cementare gli alleati nel sistema internazionale sotto leadership statunitense. Il secondo tipo di azione fu attuato come trasferimento di capitale diretto agli alleati (esempio, Piano Marshall), ma soprattutto come accesso "asimmetrico" (cioè senza l'obbligo della reciprocità commerciale) al ricchissimo ed evoluto mercato interno statunitense a favore delle esportazioni di europei e giapponesi. Grazie a questa struttura politica del mercato internazionale, dal 1945 fino agli anni 70, è rilevabile una vera e propria "sovracapitalizzazione" del sistema occidentale come trasferimento di capitali, tecnologia e stabilità (monetaria e militare) dal mercato americano a quelli europeo ed asiatico.
Non è particolare tecnico di poco conto sottolineare che il circuito internazionale del capitale e degli scambi di mercato - interni al mondo occidentale ed anche nei contorni - erano stabilizzati e resi certi dall'esistenza di uno standard monetario fisso costituito dalla convertibilità in oro del dollaro (durata fino all'agosto del 1970). Insieme alla sicurezza strategica, alla coesione politica dell'alleanza dovuta al peculiare mix tra (a) atteggiamento "capitalizzante" della potenza statunitense, (b) debolezza politica delle nazioni sconfitte e (c) interesse comune contro i sovietici, la stabilità monetaria fu un pilastro sostanziale dell'ordine "semiglobale" che permise uno sviluppo economico dell'area occidentale (cioè della Pax Americana) non ostacolato da instabilità strutturali.
Inoltre il sistema statunitense era peculiarmente evoluto sul piano tecnico. E questo non perché gli europei non lo fossero, ma perché le conoscenze teoretiche sviluppate nell'ambiente europeo nella prima parte del secolo avevano trovato negli Stati Uniti l'agente che le aveva ingegnerizzate e messe a disposizione dell'impiego industriale. Si pensi all'energia nucleare inventata nei laboratori europei ed ingegnerizzata sotto la pressione bellica in quelli di Los Alamos. Si pensi soprattutto alla teoria cibernetica sviluppata come concetto nell'ambiente europeo e realizzata in forma applicativa come nuova scienza dell'informazione ed a sua volta concretizzata poco dopo come tecnologia industriale dei computer. Si consideri che la guerra - dappertutto- aveva forzato le conoscenze "sulla carta" a trasformarsi in tecniche operative. Per esempio, la teoria dei sistemi teleologici (dotati di scopo) divenne una tecnica raffinata per disegnare strumenti di puntamento per le armi così come la teoria statistica fu forzata ad operazionalizzarsi in forme più applicative come schema di ricerca dei sottomarini (nel Regno Unito). Lo sforzo bellico accelerò la trasformazione delle idee cartacee sui motori razzo a diventare realtà. Le potenze vincitrici se ne impadronirono e continuarono a svilupparle sotto la spinta del, pur "freddo", conflitto successivo.
In sintesi, l'esperienza bellica, la immediatamente successiva pressione competitiva della Guerra fredda, provocò una corsa accelerata sul piano dell'innovazione tecnologica. I bilanci della difesa la sovralimentarono con iniezioni di capitale non vincolate al criterio normale di economicità. Le industrie godettero di un sostegno formidabile per accelerare l'innovazione tecnologica e trasformarla in capacità produttiva nei settori non militari estendola così al mercato in generale.
Questa spinta tecnologica trovò nelle industrie una massa inusuale di capitale umano competente per operazioni sofisticate. Il periodo della guerra, nel Nord-America, Europa e Giappone, potrebbe essere visto come un corso accelerato di formazione del capitale umano per le nuove tecniche ed organizzazioni della società industriale. Questa combinazione tra innovazione tecnologica, disponibilità di risorse industriali e un capitale umano competente, creò un enorme potenziale di crescita produttiva.
Tale potenziale si realizzò in crescita reale trovando una domanda altrettanto esplosiva di beni di consumo da parte delle unità sociali sia in termini di intensità che di estensione. La prima era determinata dal senso di novità, negli anni 50 e 60, dovuto al sentire possibile la conquista di uno stile di vita che era considerato fino a poco tempo prima prerogativa delle classi superiori. I molti poterono comprare per la prima volta: un auto, una televisione, una vacanza, una casa di proprietà o una seconda casa, ecc. La cultura materiale, il "consumismo", acquisì un valore morale in quanto "riscatto di massa", ma anche come modello di vita di qualità superiore a quelli più idealistici o gerarchici sperimentati nelle società povere d'anteguerra. Dappertutto, nel mondo occidentale, l'individuo si sentì più libero e "contento" grazie ad un lavoro che gli forniva i soldi per comprarsi pezzi di "paradiso in terra". Soprattutto più individui lo sentirono in quanto, per la prima volta nella storia, ci furono in una società più "ricchi" che "poveri": negli Stati Uniti già a partire dagli anni 50; nei paesi europei e nel Giappone, mediamente, a partire dalla metà degli anni 60. La classe media divenne maggioranza sociale ed il capitalismo di massa.
Il clima sociale, per i motivi detti sopra, fu alimentato da un grande attivismo economico. La gente aderì ideologicamente al nuovo modello e divenne più mobile territorialmente e psicologicamente. La conquista della ricchezza spostò nei paesi occidentali milioni di cittadini dalla città alla campagna, dal sud al nord (e viceversa), dall'altipiano rurale allo sportello della banca. E questo sforzo di mobilità fu premiato dalla conquista di un "benessere" reale caratterizzato dal possesso di beni materiali concreti offerti in modo crescente, per quantità e qualità, da un sistema industriale e di mercato che si espandeva con velocità. Il capitalismo di massa si consolidò come modello di società.
Ed è molto importante notare come questi fatti propulsivi siano stati accelerati dall'adesione ideologica delle masse alla cultura materiale, per due motivi: (a) come già detto, negli anni 50 e 60 i beni di consumo erano una novità assoluta (l'auto, la televisione, ecc.) carica di valori di riscatto e quindi molto attrattiva per l'individuo; (b) il consumismo divenne una sorta di "religione" vera e propria in quanto si dimostrò fede capace di premiare velocemente l'adesione ad essa, quindi "religo" più competitiva sia delle teologia tradizionali sia - soprattutto- dei contratti sociali gerarchici che differivano nel tempo il premio: il millenarismo (comunista o fascista o nazional-imperialista) o la promessa della felicità dopo la morte. E così i sistemi sociali dell'occidente divennero più "secolarizzati". Il valore morale si trasformò sempre di più in "valore economico" generando una cultura "economicista".
La sostituzione da parte del denaro nei confronti di altri valori fu anche favorita strutturalmente da un fatto politico sul piano della circolazione delle élite. Il nazional-imperialismo fu sconfitto militarmente nel 1945 (nei paesi dell'Asse) e non si riprodusse successivamente come codice dominante nel sistema politico di molti paesi che lo avevano sperimentato fino a poco prima. Le nazioni restavano, ma la loro ambizione non poteva più svilupparsi in forme imperiali. Tuttavia gli Stati - soprattuto quelli sconfitti- si concentrarono su una nuova forma di "nazionalismo economico". Per esempio, la burocrazia giapponese si mise al servizio delle strategie esportative delle imprese (ancora oggi il Giappone mantiene forti residui del sistema di economia di guerra); lo Stato tedesco si trasformò in servizio strategico alla crescita industriale. La concentrazione della politica su obiettivi di crescita economica indubbiamente la aiutò ed ulteriormente accelerò in alcuni ambiti nazionali. Questa notazione é importante in quanto il "nazionalismo economico" differenziò i tre modelli di capitalismo - americano, europeo e giapponjese - in base al tipo di architettura politica del mercato: liberista il primo, statalista il secondo, gerarchico-consociativo il terzo. Tale considerazione sembrerebbe superflua in quanto riporta una ovvia tendenza inerziale delle tradizioni politiche specifiche. Tuttavia qui è rilevante perché introduce il fatto che i capitalismi europeo (continentale) e giapponese non presero, mai, in realtà, una configurazione di "libero mercato" e relativa efficienza. I due furono riadattamenti dello statalismo e del sistema gerarchico-consociativo di fronte alla pressione selettiva dell'economia post-bellica guidata dalla dominanza del modello americano.
In sintesi, il mercato semiglobale di allora prese un assetto "aperto" come estensione internazionalizzata del capitalismo liberista americano. Ma in esso europei e giapponesi perseguirono un modello capitalista ancora fortemente vincolato alle loro precedenti trazioni di economie nazionali chiuse o semichiuse.
Va anche notato che il processo di evoluzione culturale detto sopra (cioè l'economicizzazione delle società, per altro accelerata nel dopoguerra, ma in moto già da due secoli) cambiò le condizioni del consenso in Occidente e, quindi, il codice della politica. Questa prese una missione più a ridosso dell'economia e sviluppò istituzioni di garanzia tese a stabilizzare la crescita della ricchezza, estendendo le possibilità di accesso di massa ad essa attraverso forme dirette ed indirette di garanzie protezionistiche. E ciò diede, per un certo periodo, un contributo in più alla formazione e stabilizzazione del "capitalismo" nelle tre diverse economie del sistema occidentale. In Giappone le imprese si impegnarono a dare lavoro "a vita" ai dipendenti, ma in cambio ottennero dallo Stato la garanzia di essere sostenute strategicamente per poterlo fare. Nell'Europa continentale il capitale pubblico creò dei lavori "artificiali" finanziati dalle tasse. E lo stesso fecero un pò tutti, Stati Uniti compresi. Indubbiamente questa ulteriore sovracapitalizzazione assisitenziale - pur foriera della odierna crisi di insostenibilità del modello di protezionismo sociale - rinforzò lo sviluppo iniziale del "capitalismo di massa", accelerando ed estendendo gli accessi alla ricchezza e riducendo le sacche di povertà.
Questa breve ed incompleta descrizione fa intendere come in pochi decenni, e con quali caratteristiche, si formò una combinazione tra capitalizzazione di massa, tecnologia e cultura consumistica che possiamo considerare il precursore della rivoluzione competitiva che è l'oggetto di questo scritto.
1.1.2. La minore pressione competitiva nel mondo della semiglobalizzazione
Ma come mai nel mondo della semiglobalizzazione non ci fu un fenomeno di concorrenzialità esasperata come quello a cui assistiamo alla fine degli anni 90, pur essendoci molti elementi simili al mondo di oggi? In realtà ci fu . Solo che le cronache la riportano come "modernizzazione", quindi con un profilo morale positivo. Inoltre la selezione concorrenziale non toccò unità economiche del medesimo settore o territori dello stesso sistema politico. Per esempio, la nuova industrializzazione selezionò negativamente i sistemi rurali non altre industrie e lo sviluppo in Francia, per dire, non portò via capitale alla Germania. Ovviamente queste immagini sono a pennello grosso e ci sono casi di nazioni e settori economici che soffrirono della competizione selettiva con il nuovo sistema che esplodeva. Ma prevalse un tipo di sviluppo dove ogni attività economica trovò un suo spazio di esistenza non toccato da eccessiva concorrenza. E questo è tipico dei fenomeni di grande crescita economica generalizzata come quella post-bellica. Ma, per rispondere propriamente alla domanda fatta sopra, è meglio approfondire qualche dettaglio.
Fino alla prima metà degli anni 80, la concorrenzialità tra unità economiche e territori era molto più limitata e contenuta in relazione a quella di oggi. Vediamo, pur schematicamente, alcuni fattori utili per una comparazione retrograda.
Metà del pianeta era economicamente congelata sia dal sottosviluppo sia dal regime economico "chiuso" dei sistemi comunisti. Il mercato mondiale era enormemente più piccolo di quello attuale. Il capitale trovava solo un mondo occidentale, abbastanza omogeneo sul piano delle condizioni economiche, dove poter circolare e fare profitto. Tra i diversi territori "interni" dell'Occidente la concorrenzialità era minore in quanto meno marcati erano i differenziali di competitività (geo)economica.
I trasferimenti di capitale, poi, erano meno facili. Non esistevano le tecniche di oggi né tantomento le vie informatiche per spostarli da un parte all'altra del pianeta. In molti paesi l'esportazione dei capitali era altamente vincolata. Si pensi, per esempio, che solo dal 1986 l'Italia ha attuato una certa liberalizzazione del mercato dei capitali e ammesso la possibilità di esportarli con certa libertà.
Soprattutto esisteva una massa minore di capitale, in assoluto, a disposizione degli individui. Il mondo occidentale é diventato, mediamente, "ricco" attorno alla metà degli anni 60 e la quantità di capitale complessivo ha assunto una massa critica combinata con un alto potenziale tecnico di sua mobilità internazionale tra la fine degli anni 70 e l'inizio degli 80. Prima di allora in questi paesi non esisteva, in quantità preponderante, una classe media dotata di redditi elevati e, pertanto, un volume di risparmio cumulato come quello creatosi successivamente. In sintesi, fino all'inizio degli anni 80, circa, non esistevano né una massa critica di capitale, né tecniche di trasferimento globalizzanti né tantomeno un'area di mercato che permettessero la mondializzazione dei circuiti di capitale.
Anche la mobilità internazionale delle imprese industriali, in media ed in quantità assoluta di attori internazionalizzati, era minore. La tecnologia non era evoluta al punto da poter delocalizzare facilmente le produzioni. Molte di queste, poi, implicavano competenze industriali, tecnologiche e di tecnica gestionale in generale, esistenti solo in pochi territori, per lo più quelli già sviluppati. La geografia delle "capacità" economiche era nettamente divisa tra mondo sviluppato e competente - l'Occidente- ed il resto del mondo sottosviluppato e privo di competenze. Pur esistendo molte imprese "multinazionali", l'attività industriale era prevalentemente interna alle singole nazioni.
E questo fatto era favorito dai regimi protezionisti che ogni Stato era in grado di attuare a difesa di qualche settore considerato critico. Non esisteva alcuna autorità che potesse imporre la libera circolazione internazionale delle merci contro le dighe di protezione (si consideri il lungo e difficile negoziato GATT e la solo recente formazione della World Trade Organization come organo di controllo della libertà ed accessi del commercio internazionale). Di fatto solo gli Stati Uniti, nel periodo della "Guerra fredda", erano un mercato interno veramente "aperto". Ma, come già detto sopra, l'interesse statunitense di favorire un mercato internazionale generalmente liberalizzato si scontrava con le esigenze strategiche di allora. Per finanziare, a scopi consenso gli alleati europei e giapponesi, gli Stati Uniti accettarono una relazione commerciale "asimmetrica" con essi. Il mercato interno statunitense rimase (relativamente) aperto alle esportazioni degli alleati - ed altri- senza il vincolo della reciprocità. E le economie di Europa e Giappone restarono parzialmente "chiuse" e protette creando il fenomeno anomalo di crescente internazionalizzazione di esse senza, tuttavia, "liberalizzazione" interna (a parte quella imposta dalla formazione del mercato unico europeo, tuttavia solo recentemente di entità tale da far prospettare i precursori di un mercato veramente "aperto"). Questa "anomalia" - una vera e propria capitalizzazione politica di europei e giapponesi da parte americana per fini di consolidamento dell'alleanza antisovietica - ne creò un'altra. La possibilità di europei e giapponesi di crescere economicamente grazie alla prima "semiglobalizzazione" (1950-1985) senza per altro pagare il prezzo della competitività e della rinuncia ai protezionismi settoriali nei loro mercati interni. Ciò ha favorito - fino alla fine degli anni 80 - in queste due aree un tipo di economia competitiva sul piano delle esportazioni. Ma le ha portate, a metà degli anni 90, in una situazione di ritardo strutturale nei confronti dei nuovi requisiti di riforma interna per reggere l'emergente competitività globale.
Semplificando, questo ha voluto dire - particolarmente in Europa fino a quasi la metà degli anni 80 - che se uno produceva un bene a costi doppi e minore qualità di un altro in un Paese diverso, questa mancanza di qualità competitiva non comportava necessariamente la conseguenza di essere subito messo fuori mercato. L'incapacità concorrenziale poteva essere compensata in forme attive (dazi) e, soprattutto, passive (costi di esportazione, difficoltà di attuare un marketing internazionalizzato, ecc., da parte di un concorrente più capace). In sintesi, il mercato era relativamente "tranquillo" - in comparazione alla concorrenzialità esasperata di oggi - perché i confini tra nazioni, entro il peculiare regime della "Pax Americana", funzionavano da limitatori della competitività. Per europei e giapponesi, va ripetuto, questa condizione abbastanza "tranquilla" é rimasta tale fino ai primi anni 90 nei loro mercati interni. Le unità economiche statunitensi si sono trovate, invece, di fronte ad una competizione esasperata e crescente nel loro mercato interno "aperto" di entità simile a quella odierna già a partire dalla metà degli anni 60.
Quest'ultima notazione spiega in buona parte da dove e perché sia partita l'accelerazione competitiva che oggi conosciamo come turbocapitalismo. ma procediamo con ordine.
1.1.3. La nuova sovranità del capitale
All'inizio degli anni 80 il capitale cominciò a circolare globalmente non più vincolato ai soli circuiti nazionali. Questo era cresciuto in termini di quantità totale. L'internazionalizzazione ed apertura (relativa) dei mercati dell'area occidentale imposta dall'architettura politica della pax Americana diede al capitale una più grande area di circolazione. L'evoluzione dei mezzi tecnici di mobilità gli diede le ali. La contemporanea costruzione di un sistema finanziario esteso (borse e pacchetti di risparmio gestiti da operatori professionali) orientò la mobilita del capitale verso una crescente pressione alla ricerca di profitti. Il tutto rese il "capitale" più autonomo nel muoversi alla ricerca della remunerazione. E questa indipendenza basata su massa e mobilità lo rese di fatto "sovrano". Sovranità del capitale significa che questo può muoversi in base al puro criterio del profitto non ostacolato da altri criteri. E fu rivoluzione.
Prima degli anni 80 gli Stati mantenevano una certa sovranità economica in quanto il capitale non era ancora sufficientemente mobile per punirle in caso facessero politiche tali da deprimerne la remuneratività. La politica era in grado di piegare alle proprie esigenze la configurazione dei sistemi economici nazionali e relativi cicli interni del capitale. In pochissimo tempo, meno di un decennio, si realizzò l'esatto contrario: era il nuovo sistema mondializzato del capitale a piegare o, meglio, "selezionare" la politica degli Stati in base ai propri criteri. E gli Stati cominciarono a perdere sempre di più la "sovranità economica": Se le tasse erano troppe ed il costo del lavoro eccessivo, allora il capitale volava via ed andava in territori più attrattivi. Se il bilancio pubblico di uno Stato non risultava credibile agli occhi del mercato finanziario, allora questo ne abbandonava la moneta ed i valori in essa denominati. Dalla fine degli anni 80 gli Stati hanno dovuto sempre più fare i conti con una minore sovranità di decidere e controllare i circuiti nazionali del capitale.
Questo fatto ha messo in crisi lo Stato di tipo sociale-nazionale. Da organizzatore sovrano di regole economiche e di garanzie sociali divenne dipendente dai criteri concorrenziali della nuova economia. E a metà degli anni 90 per tutti gli Stati il nuovo requisito é quella di adattare la loro politica ai nuovi fattori di competitività per attrarre o mantenere più capitale nel loro territorio. Per questo motivo, la "politica", nelle democrazie occidentali e in Giappone, cominciò ad essere sempre meno in grado di fornire ai cittadini garanzie economiche che fossero in contrasto con i criteri e requisiti di remuneravità competitiva del capitale. Va ancora sottolineato che questo mutamento é intervenuto in meno di dieci anni. In tutti i paesi dell'Occidente una politica abituata ad offrire garanzie e protezionismi nazionali si trovò improvvisamente nell'impossibilità di poterli sostenere. I sistemi nazionali più flessibili, tipo quello statunitense ed inglese, riuscirono ad adeguarsi alla nuova economia ricreando in essa le condizioni di ricchezza di massa. Altre nazioni caratterizzate da un modello più rigido sul piano economico, per esempio l'assistenzialismo pesante del tipo europeo di stato sociale-consociativo, si trovarono a perdere concorrenzialità sia industriale sia sul piano della remuneratività dei capitali. E da allora entrarono in una situazione di stagnazione/recessione endemica che, ovviamente, provocò l'aumento della disoccupazione ed un'erosione strutturale della base produttiva.
Questo successe per due motivi principali. Il primo fu che i Paesi occidentali si trovarono costretti a limitare il loro sviluppo allo scopo di far rientrare le tendenze inflazionistiche che negli anni 70 ed 80 avevano raggiunto un livello intollerabile. La ricerca di una nuova stabilità monetaria portò ad un prolungato periodo di disinflazione, ovvero a delle restrizioni della crescita. Ma il secondo motivo è più importante. I capitali cumulati nei Paesi a sviluppo maturo se ne andarono altrove invece che continuare a sostenere la crescita in casa propria. Questa non c'era e contemporaneamente si aprivano altri orizzonti. E ciò accadde perché le società a sviluppo maturo presentavano elevati costi del lavoro, alte tasse e vincoli regolamentativi tali da pregiudicare la remuneratività del capitale. Questo, alla fine degli anni 80 appunto, trovò improvvisamente l'apertura capitalistica della metà del pianeta che era rimasta finora esclusa dallo sviluppo. Ed essa offriva poche tasse e minimi costi del lavoro nonchè pochi vincoli. Sulle ali della contemporanea esplosione delle tecnologie di mobilità relative alla circolazione di informazioni, merci e persone, allora il capitale inondò questa parte del pianeta lasciando, per semplificare, a secco l'altra (sul piano dei nuovi investimenti). Semplicemente era nata una nuova concorrenza in relazione al profitto che i paesi sviluppati non erano in grado di contrastare vista la natura del loro modello. Il fenomeno è dovuto ad una combinazione tra nuova sovranità del capitale ed apertura di nuovi mercati più concorrenziali sul piano dei costi di produzione.
1.1.4. L'improvviso aumento di scala del mercato
In poco più di un decennio qualcosa come tre miliardi di nuovi consumatori e produttori ha fatto irruzione nel "mercato", mondializzandolo sul piano geografico.
Il fenomeno è molto noto. E' utile comunque citarlo per mettere in luce la velocità del processo.
Negli anni 80 la Cina di Deng Xiao Ping attuò una svolta storica. Di fronte all'inefficacia del modello economico comunista decise che che il liberismo economico - pur condizionato alla direzione politica del partito comunista- sarebbe stato il metodo migliore per ottenere la ricchezza di massa e la modernizzazione. Questa nuova "Lunga marcia" cominciò nel 1978 con una riforma agraria che dette ai contadini la libertà di coltivare la terra e commercializzarne i prodotti in forma imprenditoriale autonoma. Ma il ritmo della marcia accelerò enormemente, fino a diventare una corsa, con la decisione di creare, pochi anni dopo, quattro zone economiche speciali dove era possibile operare secondo le regole del libero mercato. Le conseguenze di questa liberalizzazione parziale del territorio cinese si espansero progressivamente - e velocemente - a tutta la nazione. Di fatto più di un miliardo di cinesi sono passati dall'economia di sussistenza a quella capitalistica in meno di 15 anni.
Dopo il 1989 la caduta dell'impero sovietico ha gettato di colpo circa 250 milioni di individui (Russia e satelliti) in una situazione caotica. La destrutturazione conflittuale dell'impero interno ed esterno ha creato un'instabilità politica tale da compromettere - diversamente dalla Cina- la transizione di massa dalla povertà di un'economia autarchica alla ricchezza di una di mercato. Ma di fatto, alla fine degli anni 90, questi - più i cinesi- costituiscono complessivamnte quasi un miliardo e mezzo di nuove entrate nell'economia mondiale.
Parallelamente, economie come quella dell'India, dell'Indonesia, della Malesia (ed altri dell'area) hanno raggiunto, già all'inizio degli anni 90, il primo gradino di sviluppo grazie all'effetto di decenni di modernizzazione che, pur in ambienti conflittuali e con punti di partenza di sottosviluppo estremo, sono riusciti a generare un effetto cumulato di pre-sviluppo. Il fenomeno "volano" della globalizzazione emergente ne sta ora accelerando la crescita economica, da prevedersi ancora notevole per un lungo futuro nonostante le crisi periodiche tipiche delle situazioni di sviluppo accelerato, come quella che si è verificata nell'autunno del 1997. E con queste nuove entrate arriviamo a più di due miliardi di nuovi cittadini dell'economia mondiale.
Altri cinquecento milioni stanno prendendo la nuova cittadinanza in questi anni. Per esempio il Viet Nam si é recentemente aperto alla liberalizzazione economica. Soprattutto i Paesi del Sud America, in cui si sta risolvendo la lunga crisi di sottosviluppo che ne hanno depresso le sorti economiche nell'ultimo cinquantennio, stanno portandosi sulla pista di decollo. Cile, Argentina, Brasile, Messico riescono a far girare un nuovo volano di sviluppo pur ancora rallentato dalla instabilità istituzionale e da pesi storici di sottosviluppo non risolvibili in poco tempo.
Di fatto, solo l'Africa sub-sahariana, qualche pezzo di Meso- e Sud-America, qualche area dell'Asia centrale nonché buona parte del mondo islamico, sono rimasti fuori dalla nuova mondializzazione economica. Se il lettore perdona la semplificazione e l'imprecisione tipica delle pennellate veloci, i numeri degli attori della nuova economia globale sono questi:
- circa tre miliardi di emergenti a partire da condizioni di sottosviluppo;
- poco meno di un miliardo che partono da condizioni di alto sviluppo;
- più di un miliardo e mezzo che resta ancora escluso dal ciclo della globalizzazione, ma che, essendone sempre più toccato, é pronto ad entrarci con velocità di accesso crescente.
Tuttavia il fatto rilevante é che in così poco tempo una massa enorme di individui sia passata da un'economia della povertà ad una, in prospettiva, della ricchezza di massa. Ovviamente non hanno ancora raggiunto gli standard occidentali. Ma, con il tasso di crescita che le nuove economie esibiscono, si può stimare che ci arriverranno attorno al 2010, molti paesi asiatici forse ancor prima, quelli dell'ex impero sovietico un pò più tardi.
1.1.5. I motori culturali della globalizzazione
L'estensione geografica e repentina dell'area dell'economia di mercato é anche la conseguenza della globalizzazione della "cultura materiale", di fatto il "modello consumistico" statunitense, come "mito di orientamento" ad altissima adesione sociale. Semplificando, tre miliardi di individui sono diventati produttori e consumatori spinti dall'idea di arrivare nel più breve tempo possibile ad uno standard di vita simile a quello occidentale. Per dire: due automobili, una casa di proprietà ed una di campagna, la possibilità di fare vacanze, di avere un bell'arredo casalingo, di comprarsi gadget , vestiti sofisticati, ecc. Pochi anni fa erano senza beni di consumo. Hanno visto in televisione, al cinema, su riviste, nelle immagine dei racconti di chi viaggia, il modello consumista e lo hanno preso a punto di riferimento. Il fatto importante di questa nota antropologica, per altro qui espressa in modo sbrigativo, é il mettere in luce l'enorme pressione psicologica esistente nel mondo emergente, tale da generare un attivismo economico negli individui mai visto neanche nei periodi di grande sviluppo del mondo occidentale. Ed é questo attivismo di massa che é il vero motore della crescita economica e dei suoi ritmi parossistici. Ciò é più evidente nell'ambiente asiatico che in altri. Ma proprio per questo coinvolge la gran parte della massa critica del nuovo mercato e ne orienta l'evoluzione culturale.
La montante preponderanza dell'elemento asiatico sta definendo sempre più la cultura dell'intera economia planetaria. L'"asiatizzazione" del mercato globale ne sta delineando contorni culturali che divergono da quel rapporto tra società ed economia che era evoluto nella rivoluzione industriale in Occidente, negli ultimi due secoli. In particolare cade il requisito di bilanciamento tra garanzie sociali e modello capitalistico. Il secondo prevale in una sua forma non regolata dai vincoli emersi storicamente nella politica dei paesi occidentali. E ciò avviene in quanto l'economia viene liberalizzata senza che contemporaneamente si sviluppi la democratizzazione politica e conseguente enfasi sui diritti e garanzie individuali. Ciò significa, tra le molte altre implicazioni di civiltà economica, che l'"asiatizzazione" sta dando vita ad un'economia mondiale parametrata su costi bassissimi delle garanzie sociali. E questo fatto spiazza i sistemi occidentali, caricati di più alti costi delle garanzie, sul piano della competitività. Va detto che tale vantaggio corrente del sistema asiatico (aggiunto a quello valutario e del volume più basso dei costi assoluti per le operazioni produttive) potrà comportare uno svantaggio in termini di disordini sociali ed instabilità politica indotti dalla pressione rivendicative che sono fatti tipici dopo periodi di sviluppo accelerato e socialmente squilibrato (si pensi alla crisi della Corea del Sud). Tuttavia, per molti anni questo vantaggio competitivo resterà tale e risulterà difficilmente colmabile da parte dei territori dell'area occidentale a sviluppo maturo a causa dei costi fissi generati dal sistema di garanzie sociali.
Ma il fatto rilevante nello scenario degli ultimi anni 90 e primi del 2000 riguarda la diversa velocità economica possibile al sistema asiatico emergente in relazione a quello del mondo sviluppato e di cultura occidentale. Senza eccessivi carichi dei costi tipici di una democrazia caratterizzata da forte socializzazione dell'economia, il primo può tenere ritmi di crescita, cambiamento ed innovazione che non sono possibili al secondo. Dai primi anni 90 al 1997 l'Asia ha impresso al mercato globale un ritmo di crescita accelerato che costringe tutte le altre parti del mercato a prendere gli stessi ritmi e/o a misurarsi competitivamente con essi.
La crisi del 1997 nel sistema asiatico ha mostrato i limiti di una crescita troppo accelerata e caratterizzata da un'economia a bolla. E gli osservatori stanno meditando sulle probabilità di prosecuzione del miracolo asiatico. Certamente questo è un problema e lo vedremo in seguito. Ma l'evoluzione recente ha comunque reso l'Asia protagonista del mercato globale e questo fatto resterà nel futuro.
1.1.6. Motori tecnici: la nuova mobilità delle risorse
I fenomeni detti sopra si sono combinati con una parallela evoluzione della mobilità, oltre che dei capitali, dell'informazione, delle merci e delle persone.
L'apertura politica dei mercati di quello che era una volta il "Terzo mondo" e la rivoluzione culturale in essa avvenuta non sarebbero bastati a creare il fenomeno della crescita parossistica se non ci fossero stati già disponibili nel sistema quei fattori che rendono possibile l'economia produttiva: capitale, tecnologia e conoscenze industriali. Ed essi sono arrivati dal mondo già sviluppato a quello emergente, attratti da prospettive di più alta remunerazione degli investimenti in quanto il secondo è meno carico di costi e vincoli nonché più "veloce". Nella genesi del mercato globale é importante capire la convergenza di questi tre fenomeni: apertura dei mercati, attivismo indotto dalla diffusione della cultura consumista e contemporanea esplosione della mobilità tecnica delle risorse. Non é che uno dei fattori pesi più dell'altro nella co-generazione del fenomeno. Se non ci fosse stato l'uno o l'altro il fenomeno della globalizzazione non sarebbe certamente avvenuto in forma così esplosiva ed estensiva.
L'offerta di lavoro nei paesi emergenti ha infatti trovato subito "domanda" da parte di chi ha trovato utile delocalizzare le produzioni ormai a costi troppo elevati in quelli industrializzati. E ciò é stato possibile perché la tecnologia é evoluta a sufficienza per trasportare in modo efficiente persone cose e conoscenze. Questo trasferimento indotto dai differenziali di remunerazione ha a sua volta creato una capitalizzazione veloce della domanda di beni di consumo in loco. E ciò ha generato un flusso di importazioni nonché di nuove opportunità produttive locali per i consumi interni. Ed il fenomeno da notare in questi cicli é la "velocità" combinata con la "mobilità" stessa.
Essa è un fattore rilevantissimo per capire la natura del mercato globale. Per esempio, in pochi anni i cinesi sono passati dalla tuta blu alla camicia e cravatta. Ma in ancora meno anni saranno capaci di costruire ed esportare i computer che fino ad ora hanno importato perché incapaci di costuirli. E potrebbero farli sorprendemente competitivi per costi e qualità. Di per se il fenomeno non é né nuovo né atipico. Ciò che è nuovo ed atipico é la velocità con cui avviene. E questa é spiegabile solo con l'enorme mobilità dei fattori produttivi. E' l'incrocio combinato tra rivoluzione tecnologica e mobilità del capitale che costituisce un turbo per il motore dell'economia che si é globalizzata geograficamente. Il computer é in grado di gestire la logistica di una produzione delocalizzata, ma anche di trasferire in pochi secondi il capitale utile a finanziarla attorno al globo. Ovviamente, come già detto sopra, la velocità e la mobilità delle risorse tecniche da sola non sarebbe bastata ad innescare la globalizzazione se non si fosse costituito un codice culturale altrettanto veloce e mobile.
1.1.7. Il turbocapitalismo come origine della globalizzazione
Ma il "turbo" originario - e tuttora generativo di buona parte della spinta accelerata dell'economia mondiale- non sta solo nei fattori sopra citati. Essi, infatti sono conseguenza di qualcosa altro. Bisogna chiedersi, infatti, qual é il fattore di fondo che ha spinto i capitali a finanziare le operazioni nei paesi emergenti, lì creato nuove potenzialità di mercato. Rispondere che la lunga disinflazione in Occidente sia stato il motivo per cui i capitali sono stati spinti a cercare guadagni più alti altrove sarebbe una cosa sensata e vera. Ma il fattore più importante é risultato essere la competizione sempre più feroce che si é instaurata nel mondo ricco. Il produttore americano che scopre di essere in grado di fare i televisori, per dire, a Manila, più o meno allo stesso standard qualitativo e a costi dieci volte inferiori, é evidente che butta fuori mercato il concorrente che continua a farli negli Stati Uniti. E questo reagirà o vendendo la capacità produttiva ad uno che opera in un paese emergente con caratteristiche simili oppure farà la stessa delocalizzazione. Che la mobilità delle risorse sia importante é ovvio. Senza la disponibilità di Paesi dove operare a costi più bassi questa cosa non si potrebbe fare. Ma il propulsore della globalizzazione produttiva é la concorrenza nella parte più evoluta del mercato. Ovviamente deve essere combinata con le opportunità di mobilità. Ma é la cultura della concorrenza forzata alla conquista parossistica di sempre nuove quote di efficienza che ha forzato il mercato ad allargarsi globalmente.
Quindi é l'ambiente "intrinseco" del capitalismo liberista che si é rivelato essere il vero e più profondo propulsore della globalizzazione. Un battuta scherzosa - ma neanche tanto - dice, infatti, che la globalizzazione ipercompetitiva é figlia di una "guerra civile" nel mondo dell'economia evoluta. Quindi la globalizzazione va vista come un fenomeno di estensione del capitalismo (nella sua variante di modello evoluto negli Stati Uniti e, in generale, nella cultura economica anglofona) amplificata dall'abbattimento delle barriere tecniche, culturali e politiche che usualmente lo limitano. Nel processo di estensione, il capitalismo ha trovato una inaspettata accelerazione dei suoi processi. E ciò ha messo il turbo al capitalismo fenomenologicamnte più lento che si era visto evolvere nell'ambiente di mercato limitato ai paesi occidentali ed al Giappone nel dopoguerra. E, dalla fine degli anni 80, l'accensione di questo turbo ha fatto diventare tutto più veloce.
A questo punto il lettore potrebbe dire che il nostro fraseggio introduttivo - la globalizzazione ha causato la rivoluzione competitiva- potrebbe essere rovesciato: la concorrenza negli ambienti più evoluti del sistema capitalista ha avuto una accelerazione e questo fatto ha generato la globalizzazione. In realtà i due fenomeni sono concomitanti e si sono alimentati a vicenda. Comunque sia il fenomeno più importante appare essere l'incremento di velocità dei processi economici rispetto al passato.
Il tratto principale che caratterizza la globalizzazione, infatti, è la "velocità" dell'economia più che l'estensione geografica del mercato. E qualunque operatore produttivo nel nuovo mercato globale, sia un territorio od un impresa, deve fare i conti, prima di tutto, con una economia che accelera sempre più i suoi processi. Non é ovviamente l'unica cosa da capire. Ma é il fattore principale da comprendere per avere accesso iniziale alla possibilità di essere concorrenziali nel nuovo scenario. Chi é lento per sua natura, o trattenuto da viscosità, ha una minore probabilità di sopravvivere ai turbini competitivi che girano sempre più veloci attorno al pianeta. Vediamo questo fenomeno con qualche dettaglio.
1.2. La rivoluzione competitiva
Il fenomeno della "selezione competitiva" non é certo nuovo nella storia. Anzi, ne costituisce la normalità. Civilità intere, così come singoli attori economici, hanno successo o spariscono in base all'evoluzione dei fattori di vantaggio e svantaggio competitivo che si sviluppano nella storia, in analoga combinazione tra caso e necessità che si osserva nell'evoluzione dei sistemi naturali. Ma a noi qui interessa un più ristretto orizzonte: il cambiamento delle condizioni competitive negli anni 90, proiettato nel prossimo futuro. Per scala e velocità sta assumendo i contorni di una vera e proria "rivoluzione competitiva".
In particolare la "velocità" sta forzando tutti gli attori economici a riadattarsi ad un tipo di mercato del tutto nuovo. Ed é proprio l'entità del mutamento richiesto ed il poco tempo concesso per farlo che crea un effetto di selezione, sia negativa che positiva, particolarmente intenso.
1.2.1. Le tre ondate competitive
All'emergere della globalizzazione corrispondono tre diverse fasi di evoluzione della nuova competizione tra attori economici e territori. Esse si sono sovrapposte e fuse, più che sostituite una all'altra, aumentando l'altezza dell'ondata competitiva nel suo complesso e rendendo più esteso ed intenso lo choc per tutti quei sistemi che si sono trovati in poco tempo inadeguati.
1.2.1.1. Prima ondata: selettività nei settori ad alta intensità di manodopera
Nel mondo "semiglobale" - dagli anni 50 fino alla metà, circa, degli anni 80 - l'effetto selettivo della competizione commerciale riguardava singoli settori industriali e non i sistemi territoriali nel loro complesso ancora difesi da protezioni di fatto e di forma. Va anche notato che nel periodo della grande crescita postbellica la selettività competitiva nei paesi industrializzati non produceva effetti negativi sul piano sistemico in quanto chi doveva chiudere l'attività in un settore non competitivo la poteva riaprire in un altro sotto la spinta dell'economia crescente.
Infatti la prima ondata competitiva incomincia ad avere effetti sistemici dopo il raggiungimento della fase matura della crescita post-bellica. La conseguenza di essa é stata la creazione di un sistema economico stabilizzato e quindi produttore di abitudini. Queste hanno reso più rigido e lento l'intero sistema economico. Soprattutto lo hanno caricato di costi. E' ovvio che una tale configurazione economica si trovi in svantaggio competitivo se esposta alla concorrenza di sistemi economici capaci di operare a minori costi ed allo stesso tempo di essere presenti nel medesimo mercato.
Nei primi anni 70 la prima "semiglobalizzazione" interna all'area della Pax Americana mostrò già, in piccolo e per lo più nel mercato aperto degli Stati Uniti, il fenomeno selettivo che dopo pochi anni si sarebbe ingigantito e generalizzato. I paesi emergenti che avevano accesso ("contatto concorrenziale") all'area del mercato sviluppato erano in grado di offrire certi prodotti e capacità produttiva in specifici settori. Per esempio, le automobili giapponesi si presentarono competitive per costo e qualità nei confronti di quelle statunitensi in un mercato interno americano che non era granché protetto a favore delle seconde. E a Detroit fu crisi e disoccupazione crescente. E lo stesso accadde in molti altri settori manifatturieri. In meno di un decennio per un produttore di tessili o giocattoli non era più possibile fabbricarli negli Stati Uniti perché la concorrenza dei paesi emergenti era imbattibile soprattutto sul piano del costo del lavoro. E tutto ciò che era "labour intensive" sparì o si ridusse perché l'operaio delle Filippine o di Taiwan - allora- costava anche 10 volte meno di quello americano (con una produttività analoga se non superiore). I produttori nei settori ad alta intensità di manodopera dovettero cominciare a delocalizzare le prorie produzioni nei paesi che offrivano minori costi del lavoro. E "dovettero" in quanto bastava che un concorrente lo facesse per costringere tutti gli altri ad imitarlo allo scopo di non finire fuori mercato. Negli Stati Uniti tutti i settori ad intensità di lavoro - e che non erano protetti o assistiti come, per esempio, i cantieri navali per le costruzioni marittime o il settore della difesa nel suo complesso- o chiusero o delocalizzarono le produzioni oppure ridussero la manodopera cercando di sostituirla con l'automazione. La crisi competitiva settoriale cominciò prima negli Stati Uniti che in Giappone ed Europa non solo perché il primo sistema era in anticipo sullo sviluppo maturo nei confronti degli altri due, ma sopratutto perché era un mercato più aperto e meno protetto -mediamente- degli altri, quindi più esposto all'impatto diretto della concorrenza dei paesi emergenti.
Ma ell'estendersi del mercato ed all'evolversi delle capacità produttive dei paesi emergenti la competitività nel settore ad alta intensità di lavoro si ampliò ed intensificò al punto da creare una selezione competitiva generalizzata che negli anni 90 dimostra tutto il suo impatto in termini di deindustrializzazione accelerata nei paesi sviluppati. Negli Stati Uniti il numero di addetti nel settore manifatturiero tradizionale scese in pochi anni dal 25% al 16% della popolazione lavoratrice complessiva (1994). E questo dato mostra l'entità dell'impatto. Nello stesso anno la Germania, invece, esibiva ancora un 25% di impiegati nel manifattuiriero che stava ad indicare che il sistema industriale di quel paese aveva alzato una diga contro la prima ondata competitiva (come tutta l'Europa continentale). Ma la protezione dei lavoratori manifatturieri dei paesi sviluppati contro i minori salari in quelli emergenti risultò presto debole. La contemporanea estensione del mercato costrinse comunque i produttori nelle aree protette ad aprire fabbriche nei secondi per risultare globalmente concorrenziali. Il lavoratore europeo e giapponese restò protetto, ma i nuovi investimenti finanziarono nuovo lavoro in Asia, nell'Europa centro-orientale e nel Sud America. E ciò provocò e provoca comunque deindustrializzazione nei paesi sviluppati in forma di calo o mancanza di nuovi investimenti.
Una consistente migrazione industriale si verificò - e sta continuando- in settori non tanto colpiti dal differenziale del costo del lavoro, ma caratterizati dall'insostenibilità ecologica. Nel mondo ricco sono evolute regole di protezione ambientale che non ammettono più la produzione in loco di beni che richiedano processi contaminanti o ad alto rischio. E questo settore industriale é migrato nei paesi emergenti dove il problema di dare domanda all'offerta di lavoro prevale sui requisiti di sicurezza civile ed ambientale.
La trasformazione industriale dai paesi ricchi ed evoluti a quelli emergenti e con regole meno sofisticate ha toccato anche molti altri settori diversi da quelli detti sopra. Per esempio, l'ambiente legale stunitense estremamente "imputativo" sul piano delle responsabilità dei costruttori di una merce ha incentivato molti produttori di beni legati ad attività intrinsecamente rischiose (per esempio, piccoli aeroplani) a trasferire la sede legale e parte della produzione in Messico - o in altri paesi emergenti- per sfuggire alle conseguenze delle regole di estensione della responsabilità civile in caso di incidente o malfunzionamlento.
I paesi emergenti hanno avuto e continuano ad avere la loro "prima capitalizzazione" proprio grazie al differenziale sul piano del costo del lavoro (minore sia in termini valutari che in assoluto) che delle regolamentazioni (ambientali, legali, di protezione del lavoro, ecc.). Più il capitale é libero di muoversi e più la tecnologia e le tecniche industriali acquisiscono trasferibilità, più gli attori economici tendono ad utilizzare questo differenziale. La prima ondata competitiva - negativa nei confronti dei territori sviluppati- é stata generata dalla mobilità del capitale in una geografia che metteva in contatto ambienti di costo e di regole molto diversi. Ed il fenomeno può essere visto come l'aprirsi di un buco tra una vaso pieno d'acqua ed altri vuoti: il capitale é fluito a cascata nei secondi svuotando in parte il primo. Certamente il capitale è rifluito in forma di reddito agli investitori dei paesi maturi, ma ciò non si è trasformato in nuove iniziative industriali in quei luoghi.
In sintesi, la "povertà" (cioè la competitività sul piano dei costi e delle regolamentazioni) é il fattore di vantaggio competitivo che caratterizza la "prima ondata". Ed ha selezionato negativamente nei paesi ricchi tutte quelle attività produttive che possono essere replicate in quelli emergenti a minori costi e vincoli regolamentari. E la prima ondata ha sommerso e continua a sommergere velocemente i settori produttivi "bassi" dei paesi ricchi, cioè quelli ad alta intensità di manodopera.
1.2.1.2. Seconda ondata: selettività generalizzata in base all'efficienza
La prima ondata competitiva ha costretto le unità economiche dei paesi avanzati a profonde riforme di efficienza, per lo più nel settore manifatturiero. Ma parallelamente é emersa, a partire dai primi anni 80, una seconda ondata competitiva che si accavallata alla precedente. Questa può dirsi autogenerata nell'ambiente geografico dei paesi sviluppati, principalmente gli Stati Uniti, e riguarda lo sviluppo accelerato delle tecnologie e delle conseguenti tecniche di "tecnoefficientazione".
La rivoluzione micro-elettronica ha portato ad una conseguente rivoluzione nel sistema di mercato: automazione, possibilità di massimizzazione dell'efficienza attraverso tecniche di gestione regolate via reti informatiche, nascita di nuovi prodotti industriali e servizi che hanno velocemente sostituito quelli vecchi, ecc. Parallelamente, anzi "co-evolutivamente", si é scaricato sul mercato un enorme potenziale scientifico in forma di nuove conoscenze tecniche, dal marketing alla scienza dei materiali. Il rifornitore di questi beni tecnologico-scientifici é stato un'ambiente di ricerca fortemente finanziato nei decenni precedenti, negli Stati Uniti in particolare, per esigenze militari. Non si é trattato solo di un trasferimento diretto di tecnologie militari alle applicazioni civili (come, per esempio, nel settore aeronautico), ma di uno sviluppo accelerato della ricerca scientifica di base e finalizzata, in generale, sostenuta da finanziamenti "a perdere" di fonte pubblica. Negli Stati Uniti la Difesa, per esempio, aveva instaurato - fin dagli anni 50 - il metodo di finanziare la ricerca civile, lasciata del tutto libera, per aumentare la probabilità di innovazioni non ricercate in modo finalizzato. Un esempio noto di questo approccio sono "Darpanet", sistema di origine militare - finalizzato ad aumentare la connettività tra centri di ricerca - poi evoluto, alla fine degli anni 80, come "Internet". Un altro esempio é la quantità di ricerca innovativa non (o semi)-finalizzata commissionata dalla SDIO (Strategic Defense Initiative Organization) - cioè l'organizzazione di supporto al programma popolarmente conosciuto come "Guerre stellari". Centinaia di programmi del genere fortemente sostenuti da spesa pubblica "a perdere" ha generato non solo un volume anomalo di ricerca e ricercatori, ma soprattuto una accelerazione nelle scoperte e relative applicazioni pratiche ed industriali.
Deve essere sottolineata la particolarità del clima culturale che é stato il vero motore di questa accelerazione. Esisteva una esasperata ricerca delle novità che permettessero di ottenere una superiorità militare nell'ambito di una cultura politico-strategica che individuava, per altro realisticamente, nel "vantaggio tecnologico" il fattore competitivo chiave. E proprio questo "turbo" sul piano della ricerca scientifica e tecnologica é stato un elemento sia precursore che "portante" del "turbocapitalismo". Va anche aggiunto che, al diminuire della spinta della ricerca militare alla fine degli anni 80, é comunque rimasto elevato il volume di produzione delle nuove tecnologie nell'ambito dei sistemi civili. L'enorme sviluppo scientifico pilotato da esigenze militari ha consolidato l'idea che la competitività deve alimentarsi continuamente di investimenti di ricerca. Ed essi, infatti, continuano ad essere voluminosi anche nel "dopo guerra fredda", pur meno sul piano della ricerca pura e più su quello applicativo e finalizzato (Giappone a parte che sta investendo, dal 1996, più denaro pubblico sulla ricerca non-finalizzata).
In inciso, quanto detto si riferisce principalmente all'ambiente statunitense. Ma, più in piccolo e con effetti generali minori, descrive fenomeni analoghi in Francia, nel Regno Unito ed in Germania. Tuttavia in questi paesi la scala della rivoluzione tecnologico scientifica é stata minore e la capacità di base nel settore é, oggi, del tutto inferiore a quella statunitense (solo in pochissimi settori, infatti, gli europei dimostrano di essere in testa al convoglio innovativo). Di conseguenza l'ambiente europeo, nel suo complesso, si presenta alla fine degli anni 90 con una capacità di competizione tecnologica di molto minore a quella statunitense, e dietro quella giapponese, nella stragrande maggioranza dei settori critici.
Questo dato, tuttavia, non implica necessariamente che lo svantaggio risulterà assoluto nel futuro. Un nuovo fenomeno, infatti, riguarda la accresciuta velocità di circolazione delle scoperte scientifiche e dei trasferimenti di tecnologia. Ambienti in grado di capire ed elaborare le novità saranno in grado di utilizzarle a fini industriali anche se non di produrle. In questo scenario la competitività sarà basata più sulla capacità di creare innovazioni a partire da nuove conoscenze di base più che di produrre in proprio le seconde. Ovviamente questa affermazione trova limite nel fatto che comunque i produttori di tecnologia di base avranno la possibilità di costruire i grandi sistemi planetari e, con essi, gli standard di riferimento per tutti gli altri.
Un esempio di capacità tecnologica secondaria nel recente passato é dato dall'ambiente industriale italiano che produce poche novità di base, ma molte innovazioni competitive. Ciò fa intuire un possibile modello di competitività nel futuro dove potrebbero essere economicamente premiate più le capacità di innovazione ed ingegnerizzazione che non le conoscenze di base. Ovviamente chi produrrà queste ultime avrà il problema di come difendere il vantaggio competitivo su questo piano. La competizione tra territori é passata dal criterio della "geopolitica di potenza" dell'altro secolo a quello di "potenza geo-economica" nella fine di questo. Ma per l'inizio del nuovo millennio già si vede un nuovo livello di confronto competitivo tra terrritori basato sui nuovi criteri selettivi della "geoconoscenza" (cioè la competitività territoriale in base alla concentrazione di risorse conoscitive)
Riprendendo il filo, la disponibilità di nuove tecnologie, a partire dagli anni 80, ha generato la possibilità per le imprese di ottenere molta più efficienza complessiva. La spinta per cercarla, oltre che dalle pressioni competitive della prima ondata (vista poco sopra), é venuta dal parallelo evolversi delle condizioni di mercato. In particolare, lo sviluppo di tecniche finanziarie sofisticate e di un volume sempre maggiore di capitale (risparmio e fondi pensione) ha generato una pressione al profitto finanziario che ha forzato il mondo della produzione ad ottenere più margini e valore aggiunto dalle operazioni industriali sottoposte al regime borsistico. Dall'inizio degli anni 80 si assiste alla "svolta finanziaria" nell'economia come nuovo standard mondiale. Il ciclo degli investimenti risente dei nuovi requisiti di breve termine e di intensività parossistica per la remunerazione del capitale. Le imprese sono forzate ad acquisire una maggiore capacità di produrre di più e meglio a costi più bassi. Da qui si sviluppa una spirale concorrenziale sempre più accelerata in cui la ricerca della competitività per costi e prezzi alimenta una crescente ricerca dell'efficienza tecnica e di conto economico delle aziende.
Ciò impone un ricorso esasperato alla riduzione al minimo del personale (downsizing), all'automazione, al taglio dei livelli intermedi nelle organizzazioni produttive e dei servizi, al trasferimento all'esterno dell'impresa di funzioni non strategiche (outsourcing), al raffinamento esasperato dei sistemi di gestione dei magazzini e degli stock, a tecniche di marketing sempre più aggressive e sostenute da conoscenze sofisticate, a contratti di lavoro sempre più flessibili, all'informatizzazione massiva di tutto ciò che può essere informatizzato e, soprattutto, alla necessità di saper operare in aree progressivamente più vaste del mercato.
Il mutamento nelle organizzazioni aziendali, sospinto dalla riforma di efficienza, é epocale. Due aspetti opposti lo caratterizzano. Per esempio, da un lato le Borse e gli investimenti finanziari premiano le aziende che ricorrono più massivamente alla riduzione del personale ai minimi termini (fino alla situazione paradossale di esagerare e trovarsi nella trappola del sottodimensionamento); dall'altro lato le imprese più impegnate nella competizione globale stanno migliorando di molto la qualità delle relazioni industriali, cioè della vita in azienda ad ogni livello operativo. E, pur apparentemente contraddittorio, questo esempio del mutamento in corso indica con certa precisione quale sia la natura della riforma di efficienza in corso: più qualità, meno costi. Il che anche definisce molto chiaramente quale sia il nuovo standard di competitività da raggiungere a livello di ciascuna singola impresa. Di per se il fenomeno non é nuovo. Ma é nuovo - e per questo "selettivo"- il livello di esasperazione dell'efficienza richiesto alle imprese per ottenere la competitività.
Questa vera e propria rivoluzione dell'efficienza tocca tutti i settori industriali e dei servizi imponendo repentinamente nuovi standard di sopravvivenza sul mercato alla totalità delle aziende (eccetto quelle tutelate di fatto o di forma da regimi protetti). Alla prima ondata competitiva - il cui effetto selettivo ha un'impatto prevalente sui settori ad intensità di manodopera - si sovrappone questa seconda ondata che rende generalizzata la nuova competizione sul piano della "massimizzazione dell'efficienza". E le due ondate si sovrappongono. Ma é la seconda, come detto sopra al riguardo del turbocapitalismo, che imprime una velocità sempre più accelerata che rende ancora più alta la prima. Per esempio, la delocalizzazione delle produzioni dai paesi sviluppati a quelli emergenti non segue più il solo sentiero della "selezione settoriale", ma diviene una soluzione generale di efficienza per tutti i settori produttivi sottoponibili a trasferimento.
1. 2.1.3. Terza ondata: selezione competitiva per aleatorietà del mercato
La terza ondata competitiva si caratterizza come incremento della quantità di "sorprese" che può capitare ad un operatore economico. L'estensione geografica del mercato, la sua percorribilità in tempo reale da parte dei flussi di capitale, la trasferibilità in relativamente poco tempo di tecnologie e know-how, sono alcuni dei principali fenomeni che aumentano la densità di produttori concorrenziali nell'economia mondializzata.
E' il tipico caso di un aumento quantitativo che genera conseguenze qualitative. Per esempio, fino agli anni 80 era limitato il numero dei soggetti che erano in grado di produrre computer. Oggi ne possono uscire "improvvisamente" di nuovi in modi e luoghi imprevedibili ed avere un effetto selettivo a sorpresa sul settore di mercato. Semplificando e generalizzando, un investitore o produttore non può mai essere certo che la competitività prevista di un prodotto non sia modificata a sorpresa da qualche fattore interveniente. Anche questa non é una novità assoluta. Lo é, invece, la velocità e la quantità con cui le sorprese possono avvenire. L'accelerazione del turbocapitalismo ha aumentao l'aleatorietà delle condizioni di mercato.
L'emergere di questo terzo fattore della nuova competitività non ha ancora dispiegato tutta la sua forza selettiva. Ma già si vede il tipo di impatto che avrà nel prossimo futuro. Ogni azienda è costretta a diventare flessibile flessibile di fronte ad un aumento dell'aletorietà. Per esempio, l'azienda X investe sul prodotto Y l'importo Z calcolando un ritorno di capitale che sarà positivo, per dire, dopo tre anni di commercializzazione. Diversamente da pochi anni fa, oggi é molto più difficile definire il rischio di un calcolo del genere. E questo perché é maggiore la probabilità che da qualche parte del mercato emerga un attore o fatto concorrenziale non previsto che cambia lo scenario e, quindi, la remunerazione dell'investimento iniziale.
Il mondo delle imprese (e dei servizi finanziari che le riforniscono di capitale) sarà sempre più sottoposto a questa aleatorietà. Non potrà reagire in altro modo che quello di incrementare l'efficienza sul piano della velocizzazione dei processsi di produzione, della creazione di nuovi prodotti e messa sul mercato degli stessi in modo tale da incrementare la flessibilità per reagire competitivamente a sorprese non previste. Questo è già ben visibile nei settori ad alta tecnologia. Si estenderà progressivamente a tutti gli altri.
Ma esiste un limite "assoluto" di gestione dell'aleatorietà per cui, oltre una data soglia, ogni denaro speso per ridurla tende ad essere comunque un costo senza efficacia (per incomprimibilità del numero di sorpese possibili) oppure un costo inaccettabile (compressione eccessiva dei tempi di ammortamento e accorciamento della vita dei prodotti). In generale, la nuova selettività della "terza ondata" tenderà ad incrementare le capacità conoscitive e strategiche delle imprese. Per esempio, dovrà aumentare la capacità di "intelligence" di un attore economico per individuare meglio il potenziale di sorpese possibili nel mercato mondiale; le strategie di marketing dovranno compiere un salto evolutivo per aumentare la capacità dell'azienda di reagire ad una sorpresa competitiva; lo stesso per gli aspetti produttivi e ciò implica una perfino maggiore flessibilità a tutti i livelli dell'organizzazione aziendale allo scopo di riconvertirla velocemente in base alle contingenze. In generale, le aziende dovranno avere una "testa" più evoluta.
Ma livelli di aleatorietà concorrenziale così elevati aumenteranno - probabilmente- anche il ricorso a sistemi di "nuove protezioni" da parte delle imprese. Per esempio, allo scopo di contenere i costi crescenti dell'aleatorietà non si può escludere che si formino cartelli di imprese che cerchino di ridurla sul piano "politico" premendo sui governi per interferire protezionisticamente sui processi di mercato. Non é poi improbabile che l'aumento di aleatorietà comporti in molti settori la ricerca di nuove situazioni di monopolio in modo tale da soffocare in forma conflittuale le sorprese competitive emergenti. Questi esempi di reazione alla concorrenza appartengono alla normalità storica e non sarebbe una sorpresa vederne un ritorno come soluzione al problema dell'aleatorietà. In questo caso la selettività premierebbe soggetti che sono grandi, che possono dominare cartelli e influenzare un insieme ampio di governi. Il che significa aspettarsi macrofusioni e formazione di giganti industriali planetari.
Tuttavia la complessità della "terza ondata" é e sarà tale da non permettere un rallentamento generalizzato del mercato. Quindi é più probabile che l'opzione neo-monopolista si realizzerà solo in alcuni settori, ma certamente non a tutti e probabilmente non riuscirà in molti.
Nei settori che resteranno aperti alla concorrenza, probabilmente, i requisiti competitivi utili alla strategia neo-monopolista non saranno efficaci a questo secondo livello del mercato. La frammentazione più che la concentrazione lo sarà. Così come le unità produttive medio-piccole avranno una maggiore probabilità di agire e reagire con la necessaria flessibilità (e capacità innovativa). Il che non vuol dire che le piccole e medie imprese attuali saranno oggettivamente favorite. Infatti a queste il nuovo ambiente imporrà nuovi requisiti di "testa" (sopra accennati) che implicheranno capacità direzionali comunque enormemente più sofisticate di quelle attuali.
In questo scenario un grande interrogativo é costituito da come reagirà il sistema finanziario alla nuova aleatorietà. Se, infatti, gli investimenti industriali e finanziari diventano più instabili é ovvio che il mercato dei capitali dovrà reagire in qualche modo all'incertezza crescente per ridurla. Probabilmente verranno raffinate le tecniche di gestione del rischio da parte dei fornitori e gestori del capitale. E questa sarebbe un'evoluzione positiva. Ma l'ambiente complessivamente più incerto potrebbe semplicemente aumentare il costo degli impieghi di investimento. E ciò potrebbe diventare - oltre che un ulteriore fattore di selezione competitiva nel mondo del banking- un importante fattore di crisi nel sistema del mercato globale.
E' difficile scenarizzare, nel 1997, le possibili configurazioni e conseguenze della "terza ondata" competitiva. Comunque quello che si vede ora già permette di anticipare che essa si cumulerà alle prime due con un effetto moltiplicatore enorme. E a quel punto l'ambiente economico del pianeta difficilmente potrà ospitare attori e concetti economici che oggi possono sopravvivere operando con "velocità" medio-basse. Chi deve nel presente definire una linea di scommessa competitiva é meglio che prenda la "supervelocità" (dei processi e delle innovazioni) come criterio di orientamento di fondo nelle previsioni con orizzonte temporale il 2015-2020.
Tuttavia va anche segnalato che ogni grande crescita ed accelerazione dell'economia tende a cumulare instabilità e a produrrre dei fenomeni di "controtendenza". Ciò consiglia di non sovradattare lo scenario al solo criterio della "supervelocità", ma di elaborarlo tenendo in conto anche la probabile domanda di maggiore stabilità e certezza nel mondo della nuova economia aleatoria.
1.2.2. La competizione sul piano dell'offerta di stabilità.
La globalizzazione dell'economia si basa sul fenomeno della nuova mobilità delle risorse capitali, tecnologiche ed umane (nonché sulla diffusione mondiale del consumismo come codice culturale dominante). Tuttavia, negli anni 90, si é ancora molto lontani dalla realizzazione di un "mercato globale" vero e proprio, cioè stabilizzato con regole omogene e sistemi istituzionali solidi e compatibili tra loro.
Come detto sopra, i paesi emergenti hanno attratto capitali grazie alle loro condizioni di povertà e di ambienti meno evoluti sul piano regolamentare. Fino ad ora hanno offerto una stabilità basata sul fatto che lo sviluppo prorompente ha rinforzato i sistemi politici diffondendo più ricchezza in popolazioni che partivano da zero. Ma dopo un certo livello di industrializzazione emergeranno sempre più differenze ed é prevedibile lo scoppio di tensioni sociali. Non é ancora chiaramente scenarizzabile se queste avranno effetti particolarmente destabilizzanti nei paesi di nuova ricchezza. Per esempio, non necessariamente l'ambiente politico-culturale asiatico seguirà il percorso dello sviluppo di tipo occidentale segnato da forti sindacalizzazioni e movimenti sociali capaci di produrre un'alta instabilità politica. Tuttavia é realistico aspettarsi, alla fine della prima fase dello sviluppo nei paesi emergenti, un periodo di instabilità politica dovuta alle pressioni di massa per ribilanciare le differenze generate dalla crescita accelerata. In questa prospettiva va previsto un flusso di ritorno del capitale nei paesi a minor rischio politico. Va aggiunto che quando questo si verificherà (non si può prevedere l'intensità del fenomeno, ma é molto probabile che comunque avvenga) si aprirà una nuova competizione tra paesi evoluti per chi offre più stabilità e certezza ai capitali, le imprese e le persone.
Il fenomeno potrebbe anche essere chiamato "competitività di ritorno". I paesi che perdono capitale nel presente per eccesso di stabilità decompetitiva - cioè troppe regole e protezioni che inducono alti costi- potrebbero tornare improvvisamente ricompetitivi proprio grazie al fatto di fornire più stabilità e certezza comparativa di quelli emergenti. E su questo scenario già si può cominciare a scommettere in quanto, pur ancora lontani dall'instabilità, molti attori dei paesi emergenti mostrano di indirizzare i capitali acquisiti verso le più tranquille terre dei paesi stabili, anche se il grado di remunerazione é inferiore dell'eventuale reinvestimento del capitale. Quindi si profila una situazione in cui in cui quote notevoli di capitale accetteranno una minore remunerazione in cambio di certezza. Il fenomeno é già in atto nel presente per categorie specifiche di attori.
Bisogna anche aggiungere il fatto che in sempre più settori industriali il costo del lavoro tende a diminuire la sua importanza grazie all'automazione o al tipo di prodotto in cui il costo umano è una proporzione minore nell'ambito del costo totale. Per tali unità l'insediamento della produzione in territori ad alti costi e rigidità del lavoro non dovrebbe costituire più un problema se si ottengono in cambio minor rischio e maggiore qualificazione dei fattori produttivi. Anche sul piano industriale c'è da attendersi una nuova stagione di ritorno (e specifica forma di concorrenza attrattiva tra territori a sviluppo maturo).
Entro il 2010, nei paesi ora emergenti, esisterà una massa di consumatori con gusti e requisiti più evoluti. Molti prodotti acquisiranno competitività in quei mercati sulla base di un valore aggiunto in termini di qualità certificata. Si apre pertanto una nuova frontiera competitiva per marchi industriali che garantiscano tale certificazione. E per i territori i cui ambienti regolamentari e tradizioni sono fonti riconosciute di qualità certificanti ciò si può rivelare come un'opportunità. Per esempio, tra una clinica in Svizzera ed una Cina, anche ponendo che le due siano tecnicamente alla pari, certamente la tradizione elvetica di qualità e sicurezza favorisce la prima nel marketing competitivo per clienti capitalizzati. L'esempio è volutamente banale ed arbitrario, ma serve a dare con semplicità l'idea della nuova frontiera di competitività che favorirà nel prossimo futuro i territori ad alta tradizione di stabilità. Ma il punto importante é che tale tradizione - poiché valore sottoposto a concorrenza- non necessariamente potrà risultare competitiva solo di per se, cioè "passivamente". Ogni territorio dovrà rielaborare "attivamente" con strategie di marketing e con un'evoluzione continua dei servizi reali la competitività potenziale originata dalla tradizione. Questo, per cenni, indica una chiara strada di riforma competitiva per la categoria dei territori ed attori economici a tradizione certificante, settore per settore.
In generale, l'evoluzione dei fattori di competitività tende, nel presente, a premiare i paesi emergenti e punire quelli sviluppati. Ma va notato che ciò riguarda solo una fase dell'economia mondiale. Ed essa finirà quando i paesi emegenti avranno ottenuto la prima capitalizzazione di massa a seguito dell'enorme crescita iniziale. Quando questo accadrà, vi sarà certamente un fenomeno di "ritorno" dove le tradizioni cumulate nei paesi di più antico sviluppo, soprattutto sul piano - reale e simbolico- della certezza, sicurezza e stabilità si tramuterà in un "nuovo vantaggio" competitivo. Questi cenni, ovviamente, si riferiscono ad una probabilità e ad uno scenario potenziale. Tuttavia le tendenze iniziali già visibili sembrano favorire questa tendenza. E ciò fa prevedere che tra i paesi a sviluppo maturo quelli che capiranno prima il "ritorno del pendolo" ed i modi attivi per trarne vantaggio avranno una buona probabilità di rivivere un nuovo boom competitivo e forse una reindustrializzazione. Ma ciò aprirà una nuova concorrenza nei paesi sviluppati per attrarre il capitale e ciclo di ritorno.
1.2.3. Fattori competitivi emergenti nel prossimo futuro
La lista dei nuovi fattori competitivi può essere allungata quasi all'infinito in relazione al livello di dettaglio a cui si vuole arrivare. Sopra si é cercato di isolare e classificare quelli più macroscopici. Vediamone altri più settoriali che stanno emergendo. Il criterio di citazione sceglie quei fattori che, pur sviluppandosi al momento solo in settori specifici o aree territoriali particolari, potrebbero avere nel futuro la capacità di creare nuovi standard od effetti selettivi generalizzati nell'intero mercato globale.
1.2.3.1. Il settore manifatturiero di nuova generazione
L'evoluzione recente del mercato ha privilegiato più i nuovi prodotti nel settore dei servizi che non le novità intese come "oggetti" di nuova generazione. Si é consapevoli che una tale affermazione é azzardata e difficile da controllare nel mondo dei dati fattuali. Tuttavia é evidente che il tasso di "novità assolute" nell'economia degli anni 90 é inferiore - proporzionalmente - a quello degli anni 50 e 60. In quei tempi il mercato fu caratterizzato da un'alta densità di novità assolute o tali perché da un consumo di pochi si passò ad uno di massa: televisione, auto, aerei, case di tipo moderno, prodotti igienici e per la cura del corpo, medicine, ecc. Gli anni 90 esibiscono una enorme varietà di prodotti, ma di minore "novità". Per esempio, ogni pochi anni ci sono sempre più nuovi modelli di automobile sempre più raffinati tecnologicamente, funzionalmente ed esteticamente. Ma, nei paesi sviluppati, non c'é quel senso di novità provato dall'individuo nel comprare un'automobile in un'epoca dove tale bene era per la prima volta disponibile per un consumo di massa. Invece questa "emozione di consumo" la stanno provando i miliardi di nuovi consumatori nei paesi emergenti. Ma per quelli abituati allo sviluppo, il mercato appare offrire tante novità "orizzontali" (cioè varianti di categorie merceologiche note), ma poche di tipo "verticale", ovvero novità assolute.
La cultura del consumo nei paesi sviluppati é sempre più raffinata e comincia a dare segni di volere cose che il mercato non offre. Questo lascia percepire che stia cominciando ad essere significativo un nuovo gap tra domanda ed offerta nei mercati avanzati. Capire questo fenomeno in anticipo vuol dire predisporsi ad una nuova sfida competitiva che potrebbe emergere entro pochi anni e riselezionare molte imprese (e, quindi, territori) che hanno appena imparato a sopravvivere nell'ambiente della nuova competitività.
Che cosa é prevedibile, pur nella prudenza necessaria dopo i tanti tentativi futurologici clamorosamente smentiti dai fatti? E' già in atto da tempo il processo di "individualizzazione" della domanda. A questo l'offerta industriale ha, mediamente, risposto aumentando la sua capacità di personalizzazione di prodotti standard. Ma, in sostanza, si é per lo più trattato di variazioni da uno standard che restava fondamentalmente inalterato. E ciò é comprensibile perché sarebbe del tutto antieconomico - alla luce dei processi industriali attuali - pensare che un'industria possa variare di tanto le linee base di ogni singolo prodotto. Tuttavia le nuove tecnologie offrono nuove capacità di flessibilizzare le produzioni fino al punto - che sembra fantascientifico oggi - di generare un prodotto specifico per ciascun individuo.
Questa idea del "prodotto individualizzato", comunque gestito da una procedura manifatturiera che opera secondo criteri di efficienza standardizzata, potrebbe diventare il nuovo fattore di selezione competitiva nel prossimo futuro, in alcuni settori. Per esempio, chi sarà in grado di produrre un auto co-disegnata dal cliente in base ai suoi criteri e gusti ne ricaverà un maggior valore aggiunto e un grado di competitività maggiore di chi continuerà a produrre auto standard, anche di buona qualità. Questo é un esempio che la tecnologia potrebbe rendere concreto, probabilmente, non prima del 2010. Ma tale data é solo apparentemente remota.
Si potrebbe contrapporre il fatto che i consumatori tendono ad essere sottoposti ad un effetto conformista tale da comprimere il potenziale di domanda per i prodotti individualizzati. Non si può ancora dire. Tuttavia le prime tendenze delle produzioni personalizzate fanno vedere che i consumatori reagiscono molto bene a tali offerte, fino a rendere più consistente la probabilità che siamo alle soglie di un nuovo modo di fare mercato. Talmente nuovo che l'effetto selettivo potrebbe essere devastante e di massa per chi non ha le capacità di seguirne l'andamento.
Qualcuno potrebbe sostenere che l'area di domanda di questo nuovo mercato si limiterebbe ai paesi più sviluppati. In realtà il mercato di oggi già mostra che le novità si diffondono molto velocemente, limitate solo dal potere d'acquisto dei consumatori. Quindi questo non sarebbe un buon argomento. Lo potrebbe essere, invece, la fatica del consumatore a dover pensare al prodotto che vuole invece di scegliere tra quelli che già che ci sono. Ma é probabile che le tecniche di marketing evolverebbero al punto da eliminare questa fatica sia nell'interazione personale tra cliente e venditore, sia nel dialogo elettronico tra i due, cosa sempre più possibile nelle reti comunicative emergenti. In sintesi, se un'idea ha un potenziale di grip molto forte perché intercetta un aspetto profondo della psicologia dei consumatori, allora prima o poi il mercato toglie qualsiasi ostacolo affinché la nuova idea si realizzi. Non é un atto di fiducia cieca. E' semplicemente l'osservazione di ciò che avviene nel mercato da decenni. E va aggiunto che il cosiddetto conservatorismo dei consumatori - nei settori dove lo si rilevi - non é necessariamente una resistenza congenita alla novità, ma piuttosto una difficolté da parte dell'offerta di far vedere alla domanda una possibilità. Quando tale ostacolo viene rimosso, di colpo il consumatore diviene innovativo, a sorpresa, magari essendo stato il giorno prima, apparentemente, conservatore e conformista. E parlando, nel prossimo futuro, di un mercato con quasi 5 miliardi di consumatori non é azzardato aspettarsi una rivoluzione turbolenta.
Queste considerazioni portano alla previsione di uno sviluppo progressivo, inizialmente lento e settoriale, poi esplosivo e generalizzato, del nuovo mercato dei "prodotti individualizzati". Da classificarsi entro la categoria delle "novità verticali".
Un altro aspetto di questa categoria potrebbe riguardare non solo prodotti individualizzati (e nuovi in tal senso) ma anche prodotti individualizzabili ed allo stesso tempo nuovi in senso assoluto. Per esempio, se il lettore perdona un esempio cervellotico, tutti noi dormiamo in letti che sono più o meno gli stessi da migliaia di anni. Se qualcuno inventa un letto robotizzato, con annesso guscio microclimatico e servizi di sostegno alla miglior qualità del sonno, allora un tale oggetto sarebbe percepito come una novità assoluta. Poiche risponde anche a nuove esigenze di qualità della vita dei ceti evoluti, un tale prodotto sarebbe ipercompetitivo e, in quanto a novità assoluta, avrebbe di fronte a se un potenziale di commercializzazione totale. In una tale prospettiva l'investitore su questa "novità verticale" non farebbe molta fatica a trovare il rifornimento di capitale adeguato per realizzarla.
Il punto é che la globalizzazione accelera la diffusione delle novità e, così facendo, ne incentiva la creazione di altre. Questa possibile evoluzione potrebbe comportare una totale ridefinizione di che cosa sia il settore manifatturiero. Già oggi l'operaio é sempre più un tecnico in camice bianco, nei paesi sviluppati. Nel domani, in caso evolva il manifatturiero di nuova generazione, verrà per forza acccelerata l'automazione dei processi produttivi. Ma le macchine avranno bisogno - proprio a seguito delle esigenze di individualizzazione del prodotto - di un supporto umano estremamente qualificato. Potrebbe sparire la figura dell' "operaio", nel manifatturiero di nuova generazione, ed il suo posto venir preso da una nuova figura altamente specializzata e dotata di una cultura generale oggi assimilabile a quella di un laureato. Ciò lascia intendere che una maggiore parte della forza lavoro del prossimo futuro avrà bisogno di livelli di istruzione elevati. I territori che saranno in grado di fornirla - e rinnovarla attraverso sistemi di educazione continua - avranno la maggiore probabilità di attrarre le fabbriche di nuova generazione (il cui insediamento, tra l'altro, dipenderà di meno dall'attrattività dei costi del lavoro e molto di più dalla presenza di risorse utili alla nuova efficienza). I territori che resteranno indietro su questo piano, probabilmente, rimarranno esclusi dalla "reindustrializzazione competitiva".
1.2.3.2. La biorivoluzione
E' di dovere un cenno ad una rivoluzione già annunciata da tempo. Il prossimo millennio inizierà con una novità che ha carattere assoluto nell'intera storia dell'uomo: la possibilità di manipolare i processi biologici. Sul piano della morale ciò comporterà sicuramente un grande choc e non é prevedibile che effetti esso possa avere sugli impieghi di mercato delle biotecnologie. Già oggi le sole prospettive di fecondazione artificiale spaccano le opinioni pubbliche creando problemi di consenso, per induzione, a tutta questa area tecnologica. Parallelamente, lo sviluppo delle biotecnologie nell'agricoltura sta incontrando resistenze da parte dei movimenti ecologisti. Proiettare quello che succede già oggi, di fronte a sviluppi dopotutto molto moderati delle bioscienze, lascia prevedere una grande incertezza su cosa potrebbe succedere quando la scienza sarà in grado di creare direttamente organismi viventi con processi del tutto - o parzialmente- artificiali. Per esempio, la mappazione della struttura genetica umana é in corso di completamento. Ciò significa che all'inizio del 2000 la medicina avrà a disposizione un quadro totalmente nuovo e potentissimo di intervento sulla vita dei pazienti. Ma, appunto, questa rivoluzione presenta grandi interrogativi sul piano economico in quanto comporta un salto nei codici morali e di visione del mondo degli individui che non ha precedenti nella storia nota.
In realtà si sta osservando, già oggi, che questa rivoluzione sta prendendo vie meno rumorose ed indirette. Il clima detto sopra selezionerà negativamente, probabilmente, prodotti ad eccessivo impatto morale. Ma la rivoluzione scoppierà in tutti quei sub-settori che possono travestirsi o restare indenni dalla nuova conflittualità etica. E sono molti. Si va dalle terapie geniche fino alla chirurgia di nuova generazione. Ed in questi campi l'offerta medica quadruplicherà la qualità delle sue prestazioni in pochi anni. La domanda, per questi beni, é, ovviamente, altissima ed é limitata solo dalla disponibilità di capitale e di informazione. Ma questa ultimi tenderà ad aumentare e il mercato globale capitalizzerà più persone. E' quindi prevedibile uno scoppio della nuova biomedicina ( e suoi rami derivati). Si creerà un nuovo mercato associabile, per gli aspetti di trattamento residenziale, a quello turistico. E' chiaro che ciò diventerà un nuovo fronte competitivo, soprattutto ad alto valore aggiunto . Per questo lo si cita tra i fattori importanti nella nuova concorrenza tra territori.
La biorivoluzione, anche se ostacolata nei suoi prodotti più estremi, troverà comunque luoghi dove il contrasto etico e/o le leggi di regolamentazione saranno meno vincolanti. Ciò significa che sarà di fatto impossibile fermare l'ondata delle bionovità, anche quelle più pesanti. Per esempio, i paesi emergenti ancora poveri difficilmente resisteranno alla tentazione di ospitare nel loro terriorio bioattività represse in quelli più civili, ovvero più condizionate dal conflitto etico. Certamente ci sarà un tentativo di regolazione internazionale. Ma gli esempi di questa, per esempio nel campo della protezione dell'ambiente, non lasciano prevedere alcun facile successo. E' probabile che in alcune aree emergenti scoppi un mercato delle bionovità che prenderà impulso proprio dal fatto che molte di esse saranno impraticabili, per divieto legale o per opportunità di consenso, nei paesi sviluppati o in quelli regolabili via dissuasione da questi ultimi. Per esempio, fecondazioni artificali, clonazioni, biocostruzioni di organi per trapianti, rimanipolazioni genetiche, ecc. E, data la domanda elevata da parte dei consumatori di tali biobeni, é molto probabile che il differnziale di regolamentazione diventerà un importante orientatore dei flussi di capitali e consumo. Su questo piano non si propone tanto una raccomandazione per attuare una scommessa competitiva "disetica" - che sarebbe in contrasto con i valori di chi scrive - quanto di riflettere sul fatto che molto probabilmente la biorivoluzione non verrà fermata dalla regolamentazion, ma proseguirà prorompente e supercapitalizzata sia da nuovi clienti che da nuove imprese. Se questo si realizza, ad un certo punto anche le regole di contenimento della biorivoluzione nei paesi evoluti saranno sommerse da una nuova massa critica di clienti ed aspiranti, cioè da una "nuova morale". A quel punto vi sarà la vera biorivoluzione generalizzata. Quando? Ovviamente é difficile dirlo, ma dopo il 2010-15 esisteranno certamente tutti gli ingredienti per un grande "bioboom". Le linee di scommessa competitiva, quindi, devono già tenere in conto e seguire gli andamenti di scenario in questo settore.
Nel settore delle biotecnologie che non coinvolgono direttamente gli esseri umani, invece, c'é da attendersi un "bioboom" più ravvicinato nel tempo. Il settore é di varietà enorme e per questo non ancora scrutabile nei suoi sviluppi futuri. Tuttavia é già oggi ben visibile l'emergere di un nuovo fattore competitivo nel settore, anche se di carattere secondario. Immettere nuovi organismi nell'ambiente, in forma di batteri utili per i processi industriali o di nuove piante rigenetizzate, ecc., é un'attività che richiede non solo grande capacità di ricerca, ma soprattutto una grande capacità di certificare che quello specifico bio-prodotto non produca effetti dannosi. E' importante sul piano morale e pratico, ma in termini economici é importantissimo in relazione al problema dei possibili costi causati da danni ecologici o alla salute. Le imprese cercheranno fonti di certificazione che garantiranno l'innocuità del prodotto per prevenire riparazioni legali dovuti ad incidenti. Le assicurazioni probabilemnte richiederanno certificazioni di questo tipo per stipulare un contratto con le imprese produttrici. Le certificazioni prodotte dagli istituti di miglior fama potranno ridurre i costi di tali contratti, e quindi gli istituti stessi farsi pagare di più dai clienti. Il volume stimabile di capitale circolante in questo tipo di sub-mercato non sarà granché per un pò di tempo, ma crescerà a seguito della biorivoluzione in corso, fino ad ingigantirsi quando essa scoppierà. Poiché tale certificazione é un'operazione di grande complessità tecnica, e cosa che non si inventa in pochi anni, pare sensato segnalare che già oggi sarebbe competitivo investire sulla costruzione di nuovi istituti di "ecocertificazione" a ridosso di nuovi centri di biotecnologia in università aperte all'impiego commerciale dei prodotti scientifici.
1.2.3.3. La rivoluzione dei nuovi materiali
Siamo alle soglie di un rivoluzione tecnica simile a quella avvenuta in passato in seguito alla introduzione delle materie plastiche, moltiplicata per mille. Già oggi esiste una grande varietà di nuovi materiali che, se scaricata, sui processi industriali, potrebbe in poco tempo modificarne la natura.
Tuttavia questo alto potenziale di innovazione stenta ad evolvere verso una nuova generazione di tecnologie industriali. Ed il motivo principale riguarda i costi di trasformazione degli impianti e processi industriali per l'utilizzo commerciale dei nuovi materiali possibili. Per esempio, un automobile fatta di superplastiche invece che di metallo é un oggetto già possibile oggi. Ma la riconversione del processo e l'investimento per rendere certa la tecnologia dei nuovi materiali presentano non solo costi elevati, ma - data la discontinuità tecnologica- costringerebbero le imprese a rinunciare al pieno sfruttamento remunerativo dei sistemi e prodotti in atto. Da qui si prevede uno sviluppo relativamente lento del potenziale tecnologico nell'area dei nuovi materiali.
Tuttavia alcuni settori anticiperanno la rivoluzione dei nuovi materiali, realizzandola. Al momento sarebbero pura fantascienza previsioni di dettaglio. E' sostenibile solo l'ipotesi che "partiranno" per primi i settori a tecnologia e prodotti raffinati: strumentistica di nuova generazione, microrobotica, costruzioni aerospaziali, biomateriali per impieghi medici, ecc.
Va detto, comunque, che essendoci un alto potenziale scientifico-tecnologico disponibile ed in veloce evoluzione non si può escludere che emerga qualche sorpresa del tutto imprevista, magari con impatto generalizzante. Poniamo che un imprenditore geniale trovi il modo di usare nuove schiume plastiche autoconsolidantesi per costruire case e che un cliente con alta visibilità nei media decida di farsi una villa usando la nuova tecnologia. La diffusione del sistema potrebbe essere velocissima e dar vita in pochi anni ad un nuovo tipo di industria, mettendo fuori mercato gli attori a tecnologia tradizionale. Nella finzione dell'esempio ipotetico, poi, si pensi che questa nuova tecnologia di costruzione potrebbe portare ad edficazioni più veloci ed individualizzabili. Tenendo a mente quanto detto in un paragrafo precedente, questa nuova flessibilità nel campo delle costruzioni potrebbe ottenere un enorme successo in relazione ai più rigidi, costosi e lunghi sistemi in atto. Ovviamente, va ripetuto, questi sono esempi cervellotici, ma servono per predisporre la scenarizzazione a contemplare un alto grado di aleatorietà e probabilità di imprevisti.
1.2.4. La nuova competizione indotta dal mutamento sociale
L'emergere del mercato globale sta provocando una discontinuità in tutte le dimensioni dell'organizzazione sociale, economica e politica del pianeta. In particolare, le strutture di comportamento, le abitudini e gli atteggiamenti mentali evoluti nel recente passato stanno mutando configurazione in modi tali da far presagire l'emergere di un nuovo ambiente competitivo spinto da fattori culturali/simbolici che si ricombineranno con gli altri fattori emergenti citati in precedenza.
1.2.4.1. Mobilità delle persone.
Più mezzi di trasporto e più persone che possono pagare il biglietto stanno ridefinendo i confini reali e psicologici che fino a poco tempo fa limitavano il raggio di azione territoriale di un individuo. Questa nuova mobilità genera una nuova ecologia della competizione in quanto aumenta per ciascun individuo le opzioni territoriali possibili e la sua mobilità in generale. Al momento solo lo 0,5%, mediamente, della popolazione nelle società evolute esibisce la completa mobilità (combinazione tra reddito elevato, lavori globalizzanti o comunque internazionalizzati e competenza linguistica) mentre il resto rimane ancorato ad un territorio specifico, a parte la mobilità turistica periodica. Ma questa figura potrà cambiare molto presto aumentando il numero dei globalians (cioè persone che possono lavorare in più territori del pianeta). E' difficile che nei prossimi 20 anni l'incremento numerico di questa categoria vada oltre il 3% della popolazione mondiale. Tuttavia questo numero riguarderà gli elementi di élite di ciascuna società: ricercatori, imprenditori, intellettuali. Si prevede un fenomeno di "denazionalizzazione delle élite". Ma sarebbe più giusto definirlo "rinazionalizzazione selettiva" in quanto le élite tenderanno a scegliere le lro basi neii territori più competitivi del pianeta in relazione ai diversi settori di interesse. Per esempio, conto corrente a Londra, gestione del proprio patrimonio in Svizzera, casa di montagna in Austria,, impiego universitario negli Stati Uniti, casa al mare - per dire- in Grecia o nelle Bahamas, brevi periodi di residenza lavorativa o turistica dovunque. L'aumento della massa delle élite più mobili non solo creerà un nuovo livello del mercato, ma costringerà i singoli territori a competere per attrarre la residenzialità di questo specifico settore di consumatori ad alta capitalizzazione e cultura. Soprattutto la competizione tra territori riguarderà l'attrazione dei cervelli e la soluzione del problema di come non perderli.
Questo fenomeno di nuova mobilità competitiva non riguarderà solo le élites, ma settori generazionali. I giovani, per la spinta tipica dell'età, tenderanno a riempire i potenziali di mobilità globale. E molti di essi potrebbero trovare territori preferenziali diversi da quelli di origine. Ciò comporterà il problema, in molti territori, di perdere il ricambio generazionale e, con esso, qualità antropologica media. E tale problema certamente creerà una nuova frontiera di competizione nonché nuove configurazioni del "mercato della mobilità".
1. 2.4.2. I nuovi standard culturali.
Il mondo già parla l'inglese come lingua franca ( ed un quinto di esso legge e scrive cinese mandarino, pur parlando una miriade di dialetti diversi). Ma la globalizzazione esaspererà questa dominanza. Parlare una lingua specifica, inoltre, implica assorbirne i segni antropologici depositati nella sua genetica culturale. Entro il 2020 é prevedibile una anglofonizzazione del pianeta ed una riselezione delle diverse culture locali in base allo standard anglofono (fenomeno già in atto, per altro). Tale standardizzazione linguistica darà un vantaggio competitivo "ombrello" a chi opera in inglese e meglio ne maneggia lingua e standard culturali. Ma deprimerà la competitività di culture e lingue diverse intrappolando chi opera in esse in uno spazio di mercato e comunicativo ristretto. Ciò produrrà effetti selettivi nel mondo delle telecomunicazioni e delle fonti culturali e letterarie, tendenzialmente a favore dei prodotti anglofoni e a danno degli altri.
Tuttavia la globalizzazione - anche se favorisce la standardizzazione ad un livello- provoca una differnziazione ad un altro. Proprio la presenza di uno standard mondiale potrebbe riqualificare per reazione le culture locali e nazionali. In ogni caso l'accesso allo "standard mondiale" sarà per molto tempo limitato dal fatto che il più delle persone resterà ancorata ad un territorio specifico, per lo più quello di nascita. Ciò imporrà un particolare requisito ai prodotti comunicativi. Per essere sempre più economicamnte competitivi dovranno risultare circolabili a livello planetario, cioè essere di "scala". Ma per poterlo essere dovranno essere facilmente traducibili in molte lingue ed essere predisposti ad una gestione plurilinguistica. E questo sarà un nuovo fattore di selezione competitiva per i settori interessati (comincia ad esserlo nel campo cinematografico). Va notato che questa spinta alla standardizzazione plurilinguistica e multiculturale - il lettore perdoni l'ossimoro, ma é solo apparente- modificherà la dominanza dello standard anglofono, e relativo traino culturale. Si creerà, piuttosto, un nuovo "gergo" foriero di una cultura ibridata e non più dipendente dalla storicità di uno specifico territorio. Questi fenomeni, il cui apparire può essere previsto attorno al 2015 (nel caso non succeda qualcosa che interrompa la globalizzazione) avranno nel tempo un forte impatto sulle credenze religiose e morali e sulle abitudini degli individui in tutto il pianeta. Un tale cambiamento culturale - tra l'altro in co-evoluzione con altri fattori modificativi delle psicologie- é molto probabile muti completamente una buona parte delle strutture che orientano il consumo come lo conosciamo oggi. Difficile dare dettagli, ma si può pensare a forti mutamenti nell'organizzazione famigliare e nelle tradizioni culturali orientati da una minore dipendenza dalla storicità di un luogo e sempre più dipendenti dalle informazioni che circoleranno nella nuova superficie della comunicazione.
1.2.5. Il nuovo mercato della gestione simbolica
Un ambiente culturale del tipo di quello accennato tenderà ad essere più sensibile alle informazioni e comunicazioni che circolano nella rete globale di comunicazione. E chi ne domina gli snodi o ne sarà al centro, potrà meglio orientare le visioni ed i gusti dell'intero pianeta. Vediamo meglio questa ipotesi.
1.2.5.1. Il probabile fenomeno delle ondate comunicative
Con più utenti televisivi collegati in reti sempre più globalizzate aumenterà il potere orientativo sia delle comunicazioni mirate sia di quelle non-finalizzate, ma che riescono ad andare in video. Il gran numero di telespettatori che vedono la stessa cosa creerà un massa critica che fisserà quella cosa stessa nella psicologia planetaria. Oggi questo fenomeno é limitato e contenuto dalle barriere linguistiche e diversità nazionali dei sistemi di comunicazione. Domani tale limite non esisterà più e l'evoluzione quantitativa genererà un mutamento qualitativo. Ciò che passa in televisione sarà più importante, più capace di generare uno stereotipo fisso non facilmente correggibile successivamente, soprattutto orienterà in modo omogeneo i gusti di una massa enorme di persone. In sintesi, ci sarà un nuovo mezzo per orientare i grandi movimenti del mercato globale. C'é da aspettarsi un sistema fatto di "ondate di opinione" concentrate su un oggetto o materia. Questo diventerà un nuovo fattore selettivo di impatto notevole per le strategie aziendali e quelle dei gestori di un territorio. Saranno possibili vere e proprie "guerre comunicative" tra competitori così come avranno effetto moltiplicato, in relazione agli effetti di oggi, campagne pubblicitarie e di opinione orientata.
Lo scenario si presenta di difficile interpretazione ulteriore. Tuttavia emerge chiara una linea di scommessa competitiva che già ha senso nel mondo di oggi. Gli attori economici saranno costretti a sviluppare capacità sempre più evolute di gestione competitiva e difensiva dell'immagine, ad un certo punto nemmeno comparabili con quelle richieste nel presente.
1.2.5.2. Dalla tecnologia delle reti all'ingegneria dei contenuti
Entro il 2010 - a meno di catastrofi- probabilmente il pianeta sarà avvolto da una nuova rete comunicativa a connessione totale. Ciò significa che esisterà una nuova "superficie". Oggi la si chiama "virtuale" mentre é solo nei suoi primi sviluppi e questo termine segnala solo una maggiore autonomia dei simboli di produrre un livello di realtà percepibile come tale grazie al raffinamento dei veicoli comunicativi e delle tecnologie di organizzazione delle informazioni. Ma il termine più corretto sarebbe proprio quello di nuova "superficie simbolica" che indicherebbe più realisticamente l'effetto di autonomia delle costruzioni culturali. Nel prossimo futuro il pendolo dell'innovazione più spinta passerà dalle reti ai contenuti Nel recente passato si é concentrata più sulle prime proprio grazie alla maggiore varietà di opzioni tecnologiche a seguito della priorità di ingegnerizzare le nuove reti. Ma quando le reti saranno mature ci sarà più enfasi ed innovazione sul piano dei contenuti che transitano in esse.
Che il mondo prodotto culturalmente (dalle menti e dalla relazioni tra loro) abbia una propria autonomia forte da altri livelli di realtà non é certo cosa nuova (si pensi all'autonomia di una visione cosmogonica religiosa dal livello di realtà prodotto dall'astrofisica). E' nuova, invece, l'estensività e velocità con cui possono circolare i simboli. Sono nuovi i mezzi per organizarli in pacchetti semantici e audiovisivi. E' nuova la conoscenza che permette di progettare mondi simbolici dedicati. Il nuovo, in sintesi, riguarda le possibilità proliferative e di confezione di pacchetti simbolici. E questa novità crea un nuovo livello della comunicazione competitiva.
Essa è attualmente riportabile alla pubblicità (comunicazione orientativa). Ma le nuove tecniche e reti comunicative potranno creare la comunicazione post-pubblicitaria. Questa sarà presto in grado di creare una cultura intera entro cui il bene pubblicizzato ha un vantaggio invece che adattare il secondo alla prima. Già da tempo immemorabile si nota che le mode favoriscono certi oggetti su altri. Le nuove possibilità potrebbero comportare la creazione di universi di riferimento simili alle mode -più stabili nel tempo- che implicano il consumo di certi oggetti oppure l'attuare specifiche azioni. Per ottenere questo effetto non occorrerebbe praticare i pericolosi sentieri delle tecniche condizionanti. Una buona ingegneria dei simboli combinata con un accesso alla rete globale potrebbe bastare a generare questo effetto (che in parte é stato trattato in un paragrafo precedente). Ma ciò é un'immagine che si può prevedere restando ancorati alle possibilità di oggi. Con uno sforzo di proiezione anticipativa delle possibilità si può vedere anche lo sviluppo di nuovi ambienti comunicativi dove un soggetto non é più spettatore, ma interagisce con un universo simbolico dedicato, per esempio, a dargli emozioni specifiche in cambio di moneta. Queste possibilità non sono per niente fantascienza, ma opzioni già oggi concettualizzabili per progettare il marketing di nuova generazione. Per esempio, il negozio non sarà più un'esposizione di oggetti, ma un ambiente gestito simbolicamente dove il compratore si immergerà interattivamente in una situazione progettata per incentivare l'acquisto.
In realtà già oggi un "negozio" é questo, ma nel prossimo futuro le nuove tecnologie unite ad una maggiore competenza scientifica al riguardo dei mondi simbolici, produrranno un ambiente di scambio più efficiente e "mentale". Si vedono già i precursori di tale evoluzione. Per esempio, i "ristoranti tematici" tentano di mentalizzare di più la relazione tra cliente e fornitore creando un ambiente più carico di simboli, diversi da quelli strettamente legati al cibo (Fashion Café, Planet Hollywood, ecc.) . Si spinga questo esempio mille anni luce avanti e si potrà avere un'idea di come potrebbero essere i nuovi ambienti di consumo ed interazione commerciale mediate sia da comunicazioni ipertecnologiche che da una nuova ingegneria della "gestione simbolica".
Tutti gli ambienti di interazione tra un consumatore ed una fonte potranno essere sottoposti alla nuova "gestione simbolica". Già alcune sale cinematografiche stanno sperimentando l'immersione totale dello spettatore nel film. Le tecnologie sono ancora poco evolute e ciò riguarda qualche scuotimento della sedia o l'indossare occhiali che permettono di sperimentare l'effetto tridimensionale dell'azione mostrata sullo schermo e, quindi, di una maggiore partecipazione dello spettatore alla scena stessa (perché gli sembra di essere dentro di essa). Le nuove tecnologie e conoscenze di gestione simbolica espanderanno, per esempio, questa possibilità fino ad un inserimento partecipativo totale dello spettatore nel film. Ma questo esempio fa capire come possano essere reingegnerizzati sul piano simbolico tutti gli ambienti di scambio. Fino al limite di creare mondi virtuali, ma creatori di sensazione e situazioni percepite come reali, in cui vivere parte del proprio tempo. Che non sarebbe solo un'iperestensione di quello che é oggi un parco divertimenti, ma la creazione di un vero e proprio ambiente virtualizzato in relazione a preferenze individuali in cui essere immersi per parte della giornata.
In sintesi, già da oggi é visibile una frontiera di competizione basata sull'ingegneria e gestione simbolica per la riconfigurazione dei luoghi di scambio e di "vita mentale". E' prevedibile che per un certo periodo (fino al 2010 circa) queste nuove possibilità emergano solo in settori o luoghi specifici. Pur limitato, tale sviluppo sarà però sufficiente a creare una nuova selettività nei settori toccati perché i nuovi ambienti commerciali disegnati dalla gestione simbolica saranno immensamente più concorrenziali di quelli tradizionali. Dopo questo periodo é prevedibile un "boom" della gestione simbolica con veloce diffusione globale e relativo effetto selettivo generalizzato.
Va notato che il symbol management" può anche essere visto come un successore rivoluzionario delle attuali tecniche di marketing.
Inoltre, sul piano finanziario, si può ipotizzare che l'elaborazione simbolica dedicata di nuovo tipo degli ambienti di scambio possa produrre un maggior valore aggiunto (più "margine" per intendersi) dello scambio stesso. E questo perché molti costi di marketing e pubblicità sarebbero incorporati nella struttura di ingegneria simbolica dell'ambiente di vendita, questa controllabile dal fornitore con più efficienza sul piano dei costi.
1.2.5.3. La riforma del tempo
Ma il maggior impatto della rivoluzione simbolica e comunicativa, nel mondo dell'economia, lo si avrà nei sistemi finanziari. Sia l'iperconnettività in rete continua sia la nuova ingegneria simbolica permetteranno la creazione e circolazione sempre più veloce di concetti finanziari sempre più astratti, quindi più capaci di generare nuove forme e varianti di manipolazione dei valori. Più che un' inflazione da eccesso di conoscenza" (o da velociatà di circolazione del capitale) bisogna aspettarsi una enorme volatilità dei processi finanziari basata sulla sulla maggiore "leggerezza" di pacchetti che organizzano il capitale in modi sempre più astratti. E' anche prevedibile (estendendo fenomeni già oggi in atto) una ipersensitività dei cicli finanziari alle informazioni, e soprattutto, agli orientamenti di gestione simbolica inseriti nei sistemi di comunicazione. Ciò non comporta necessariamente una volatilità legata ad azioni manipolative. Il mercato, infatti, saprà, molto probabilmente, trovare mezzi di autoregolazione.
La volatilità, invece, riguarderà la "rivoluzione del tempo" nei cicli finanziari. Esso - grazie alla maggiore astrazione combinata con la ipertecnologia delle reti - sarà sempre più quello elettronico e sempre meno quello "naturale" (cioè passerà dal "meso" di oggi all'"ipermicro" di domani nonché all'"ipermacro" di dopodomani). L'estensione del tempo - frutto della maggiore astrazione producibile e comunicabile- creerà una estensione maggiore varietà dei cicli e prodotti finanziari possibili. E questa maggiore varietà creerà la probabilità di maggiori sorprese in un qualsiasi ciclo finanziario, sia in bene che in male.
L'uso del termine "volatilità" - che nel linguaggio finanziario di oggi ha un significato preciso - non é necessariamente quello più indicato per indicare il tipo di "movimentazione" che avrà il mercato finanziario in relazione alla modifica del tempo. Non é escluso, infatti, che il sistema del futuro saprà trovare meccanismi di stabilizzazione. Tuttavia il gioco tra stabilizzazione ed aleatorietà in un mondo più astratto e con agende temporali più variate ed estese comporterà la nascita di un sistema finanziario, e concetti di moneta, probabilmente molto diversi da quelli di oggi. Il che sembra una conclusione banale. Ma lo é meno se uno pensa che già oggi la gestione del capitale tocca orizzonti futuri concettualizzati come proiezioni lineari e continuiste del presente mentre si é a ridosso di un cambiamento epocale che avrà un grande impatto proprio in questo settore.
1.2.5.4. Dagli oggetti alle situazioni
Si sta osservando, in alcuni settori di mercato, che il possesso di un oggetto tende sempre meno a produrre la situazione che il consumatore ricercava proprio attraverso l'oggetto comprato. Per esempio, una bella automobile da ancora emozioni. Ma, se veramente bella, costa molto. Un auto media é ormai solo un elettrodomestico. Fino agli anni 70 (in ambiente europeo) era un oggetto che comportava un'acquisizione di "status". Oggi la si compra per necessità, ma meno per il piacere della situazione provocata dal possesso.
Molte categorie di oggetti stanno perdendo il loro potere generativo di situazioni particolarmente gradevoli. Se questa tendenza, da quasi impercettibile come é ora, diventasse più diffusa, allora si aprirebbe una nuova area di mercato. E una certa probabilità che ciò avvenga la si ricava dall'emergere della cultura "neospiritualista" nelle società sviluppate: si comprano meno oggetti o non si compra più l'oggetto di grande prestigio (per esempio, lo Swatch al posto dell'orologio raffinato e costoso e non come integrazione di esso), ma si cercano crescentemente situazioni in grado di fornire emozioni di benessere più sottili o più dirette, comunque meno mediate attraverso oggetti tradizionali. Il fenomeno si può banalizzare con la battuta che se uno ha la pancia piena, tra la cena ed il film sceglie il secondo. Certamente la saturazione di oggetti nel mercato di oggi sta cominciando a far perdere valore emotivo alla categoria generale degli oggetti stessi. Ovviamente tale ipotesi va limitata dal fatto che essa presuppone consumatori "saturi" e dalla constatazione che molti oggetti mantengono il loro valore emozionante (le perle, per esempio). Tuttavia si nota una tendenza verso la domanda di meno valori materiali e di più situazioni utili al benessere dello spirito.
Se questa tendenza si afferma, il fenomeno non implicherà per nulla un rallentamento del mercato o una minore propensione al consumo, ma alla generazione, piuttosto, di un "mercato dello spirito". Che cosa si venderà - ipoteticamente - in esso? Situazioni.
Saranno fornite da una nuova generazione di servizi: individualizzati, simbolicamente raffinati, tecnologicamnte evoluti. Quali? Il rispondere richiederebbe il ricorso alla fantascienza. Ci si può provare per avere un'idea del possibile. Per esempio, ad un certo punto della vita alle persone può pesare l'avere una specifica identità. Ciò potrebbe generare una domanda di servizi che offrano una diversa identità provvisoria, per gioco, o perfino permanente se potesse essere ridotta la barriera legale al riguardo. Questo é un pensiero estremo al riguardo di una possibilità. Uno più prudente e realistico può segnalare semplicemente che una parte del capitale di consumo si potrebbe spostare dagli oggetti alle situazioni. E' sufficiente restare a questo livello minimo di citazione per segnalare uno sviluppo del mercato che potrebbe avere diffusione, se non generalizzata, certamente di scala tale da produrre conseguenze di selezione competitiva nel mercato dei servizi del tempo libero, turistici, medico-cosmetici, culturali, dello spettacolo, ecc.
Va notato, solo per completezza, che lo stesso motore che provoca il consumo di meno oggetti e più situazioni potrebbe indurre un mercato di nuovi oggetti che evocano nuove situazioni richieste.
Il fattore di selezione competitiva qui implicato, in sintesi, riguarda una nuova domanda di benessere della mente che richiede un'offerta più carica di cultura ed emozioni. Il che si connette con le tendenze viste sopra in merito alla gestione simbolica ed all'evoluzione dell'ambiente comunicativo. L'insieme sembra avere una massa critica sufficiente per parlare, pur metaforicamente ed ipoteticamente, dell'emergere di un nuovo "mercato dello spirito", oggetto quindi di "gestione simbolica", accanto a quello delle cose, ambedue sempre più accelerati e sinergici.
1.2.6. La violazione di teorie consolidate
Anche l'ambiente dell'economia teoretica è scosso dalla rivoluzione conpetitiva. C'è da dire che è sempre in movimento in quanto solo due grandi teorie classiche mostrano una tenuta nei decenni, se non nei secoli. Quelle della moneta e della teoria del commercio internazionale. Tutto il resto tende a mutare perché, banalmente, cambia l'oggetto di studio.
Ma anche questi due monumenti di stabilità teoretica stanno avendo qualche crepa nei loro impianti assuntivi.
Non tanto la teoria della moneta come fondamenti, quanto i criteri di politica monetaria tendono ad essere scossi dalla rivoluzione competitiva in atto. Per esempio, era cultura consolidata il fatto che al raggiungimento della piena occupazione corrispondevano tensioni inflazionistiche e quindi l'obbligo del ricorso a rialzi dei tassi monetari per raffreddare la crescita economica. Ma questo senso comune è stato parzialmente smentito nel 1996 e 1997 quando la fortissima crescita negli Stati Uniti ha generato uno scenario di piena occupazione, ma i prezzi non sono saliti ed i salari sono aumentati più lentamente del previsto. Questo non vuol dire che il principio sia violato. Vuol dire solo che le importazioni crescenti a prezzi bassi, e la competizione sui prezzi, nel mercato interno americano hanno agito da calmiere intrinseco delle tendenze inflattive, almeno per un certo periodo. Questo vuol dire che il mercato globale iperconcorrenziale tende a creare un effetto deflattivo di fatto. E' possibile vederci chiaro adesso? Non ancora. Ma già questi segnali hanno fatto parlare di "nuova economia".
Collegato a questo punto è il problema dei criteri di regolazione monetaria da parte delle banche centrali. Per esempio, se ad un certo punto ci si trova in una situazione di deflazione di fatto, ma accompagnata da un aumento dei salari, tipico precursore di una ripresa dell'inflazione, che si fa? Il criterio classico direbbe di stare pronti comunque ad alzare i tassi. Ma potrebbe essere un errore capace di aggravare la tendenza deflattiva di fatto. Nel 1997 l'autorità monetaria statunitense si è trovata in questo dilemma. Indipendentemente da come lo risolverà nel prossimo futuro, nel 1996 e 1997 si è notato che il dubbio ha portato ad una modifica metodologica del modo con cui la banca centrale americana definisce i parametri di intervento. E' stata molto allargata la varietà di indicatori che si presume sia necessario tenere sotto controllo. Ciò comporta anche una gestione di più breve periodo delle politiche monetarie. Il tutto vuol dire "navigazione a vista", cioè l'uso del pragmatismo contro l'aumento dell'incertezza. E l'approccio pare corretto. Ma ciò indica una crisi, pur ancora piccola, delle credenze consolidate. Molto può anche dipendere da come si calcola l'inflazione. Nel 1996 alcuni esperti ritennnero, che negli Stati Uniti, il metodo di rilevamento ufficiale ne sovrastimasse gli andamenti. Così come in Europa anche molti pensano il metodo in uso (recentemente revisionato) la sottostimi. In ogni caso appare chiaro che la rivoluzione competitiva stia forzando lo sviluppo di un analisi più raffinata e più capace di cogliere mutamenti repentini, sempre meno dipendente da pregiudizi teoretici e più attenta al come evolve la realtà. Questo è già di per sè un dato rilevante perché segnala alla comunità dei teoretici che probabilmente alcuni paradigmi vanno rivisti o di molto flessibilizzati.
La teoria del commercio internazionale - ormai con quasi due secoli di stabilità paradigmatica - è sempre di più criticata. Il dato fattuale che ha scatenato la critica riguarda l'osservazione che all'aumento del commercio internazionale non corrisponde un vantaggio equilibrato per tutti gli attori partecipanti. I critici usano una semplice immagine d'effetto: l'operaio del paese emergente ingrassa e quello del paese emerso affonda. In realtà la teoria, nei suoi fondamenti è valida. Dati due paesi di diversa capacità produttiva, se ambedue si specializzano in quello che sanno fare meglio e poi lo scambiano, allora è certo che ambedue avranno un vantaggio dallo scambio stesso. E questo resta vero sulla carta. Ma nella realtà succede che un paese continua a fare tessili ad intensità di manodopera e quello che ha un minore costo del lavoro e pari qualità lo massacra perché i due sono in contatto commerciale e concorrenziale. Per ripristinare ciò che prevede la teoria, il primo paese dovrebbe fare computer ed il secondo specializzarsi nel tessile. Ma ciò non succede. Chi fa il tessile nel primo paese non vuole mollare il lavoro e trova delle leggi che lo proteggono. Oppure non trova capitali per investire nei computer perché quelli non sono attratti dalle alte tasse. Con queste semplificazioni si vuol dire che la teoria del commercio internazionale assume una condizione ideale di razionalità, flessibilità dei mercati interni e mobilità del lavoro che non corrisponde alla realtà nei mercati protetti, per esempio, europei ed è problematica perfino per i mercati più liberalizzati. La teoria resta valida e, di fatto, rimane anche una raccomandazione delle condizioni che creano il vantaggio reciproco nel commercio internazionale. Ma certamente deve essere arricchita di una maggiore capacità di descrivere i fattori che ne limitano l'applicazione.
Comunque l'ambiente delle teorie maggiori e minori che descrivono l'economia è certamente in subbuglio. Si apre anche a questo livello una nuova stagione di nuovi eventi a ridosso della rivoluzione competitiva.
Capitolo 2
La necessità di una nuova architettura politica nazionale: dallo Stato sociale a quello della crescita
Se pensassimo in soli termini libreschi sarebbe del tutto sorprendente rilevare nei fatti che i paesi ricchi stiano soffrendo a causa della globalizzazione invece che trarne profitto proprio grazie al fatto di essere più evoluti di quelli emergenti in una situazione di dinamizzazione ed ampliamento dei mercati. Sono i secondi, invece, che stanno andando a gonfie vele, ovviamente considerando che partono da condizioni di sottosviluppo. Sembra un paradosso. Infatti, in teoria, la nuova economia globale dovrebbe essere un'enorme fonte di opportunità per tutti e, in particolare, proprio per i più capaci, evoluti e dotati. Ma non é del tutto così. E non lo é, in particolare, per quei paesi in cui l'economia si é trovata vincolata da eccessi di regolamentazione e protezionismo sociale, quindi carica di situazioni e costi "decompetitivi".
Non dovrebbe essere per niente preoccupante che il capitale nei paesi ricchi vada a finanziare lo sviluppo in quelli emergenti. Se in un paese emergente riescono a produrre in forma più competitiva un giocattolo, ciò non costituisce necessariamente un problema per il territorio più sviluppato dove il giocattolo stesso é fabbricato in modo non-concorrenziale (per il produttore specifico ovviamente lo è). Si ritiene, infatti, che lo stimolo competitivo porti ad un cambiamento delle vocazioni industriali. Esemplificando, se non posso fare più giocattoli, fabbricherò aerei oppure mi metterò a produrre più o nuovi beni diversi. E li venderò nei nuovi mercati dove la loro domanda sarà finanziata dalla capitalizzazione derivante dalla produzione competitiva di giocattoli. Passate le sofferenze del cambiamento, non necessariamente la selezione competitiva produce un danno sistemico del territorio sviluppato che perde la possibilità di produrre una categoria di beni. Anzi, l'ingrandimento del mercato, l'aumento degli attori economici e della varietà dei prodotti, sono fenomeni considerati, in teoria, portatori di benessere crescente sia per i paesi emergenti sia per quelli già sviluppati.
In questo ciclo tendenzialmente virtuoso per tutti può intervenire un cortocircuito nel caso di un territorio che perda vecchia capacità produttiva a favore di un competitore emergente, ma non sia in grado di costruirne una sostituiva su nuovi settori. Il problema non é la deindustrializzazione relativa di per se. Lo è nel caso a questa non corrisponda una reindustrializzazione competitiva. In tale eventualità il capitale rallenterà la sua produttività nel territorio specifico ad industrializzazione stagnante o decrescente. Ed allora la circolazione internazionale del capitale potrebbe apparire come quella in un sistema chiuso di vasi dove la quantità d'accqua resta fissa: se un vaso si riempie vuol dire che un altro avrà meno acqua. E questo potrebbe dare l'idea che la maggiore ricchezza dei paesi emergenti implichi una perdita della stessa nei paesi già emersi che cedono capitale e capacità produttiva a favore dei primi. Ma tale immagine sarebbe, in realtà sbagliata. Se un territorio perde ricchezza, allora il problema sta nel fatto che questo luogo é caratterizzato da vincoli o situazioni che impediscono la crescita ed il ricircolo produttivo della ricchezza, ovvero la reindustrializzazione continua e progressiva attraverso il ciclo degli investimenti.
Con questo si vuol dire che non é la globalizzazione, di per se, a creare la deindustrializzazione in alcune aree dei paesi sviluppati. Ma é, piuttosto, la debolezza competitiva di un territorio che trasforma la globalizzazione in un impatto distruttivo di esso. E se ciò succede vuol dire che quel territorio ha una configurazione che impedisce la creazione ed il reinvestimento della ricchezza o per rigidità del mercato del lavoro, o per tasse troppo alte, o per assenza di infrastrutture moderne e/o per poca competitività monetaria, ecc.
2.1. Il crollo dei modelli sbilanciati per eccesso di garanzie protezionistiche
Fino a pochi anni fa molti ricercatori si interrogavano su come mai fosse possibile l'esistenza - con successo - di modelli di capitalismo così diversi l'uno dall'altro, come quelli di Stati Uniti, Europa continentale e Giappone. Tempo prima, alla fine degli anni 50, qualcuno si chiese perfino se il modello comunista potesse essere compettivo sul piano della ricchezza e tecnologia al punto di superare quello occidentale. Oggi sembra buffo rileggere i rapporti di ricerca di quegli anni dove gli analisti temevano il sorpasso tecnico ed economico da parte dell'Unione Sovietica. Ma, fuor di scherzo, é molto importante capire perché nel dopoguerra l'economia abbia preso forme così diverse entro altrettanto differenti modelli politici, tutti con buon successo - a parte quello comunista - fino alla fine degli anni 80.
La spiegazione va trovata nello specifico clima dell'economia della ricostruzione post-bellica, in particolare nell'eccezionalità della grande crescita in Occidente tra la fine degli anni 40 e la fine dei 60, nonché nella sua natura di "bolla". E ciò pare importante nell'analisi perché introduce la probabile fonte primaria del "difetto" che oggi provoca la crisi dei sistemi ad alta protezione sociale: il non aver capito l'eccezionalità della grande capitalizzazione ha dato l'illusione che la ricchezza potesse crescere all'infinito. Soprattutto la sovracapitalizzazione, ed il particolare "assistenzialismo strategico" dell'epoca, non ha "educato" i sistemi politici nelle tre diverse varianti del capitalismo occidentale a concepire garanzie che non pesassero sull'efficienza economica. E tale visione illusoria ha creato, alla fine degli anni 60, un'architettura politica del mercato sbilanciata sul lato delle garanzie redistributive a sfavore dei processi di creazione della ricchezza, i secondi strutturalmente compressi dalle seconde. E, negli stati dove questo difetto fu cristalizzato in forma istituzionale permanente e pervasiva (Europa continentale e, pur di meno, Giappone), lo sbilanciamento tra garanzie e crescita divenne endemico a danno della seconda e quindi della sua capacità di finanziare le prime.
In sintesi, i tre modelli di capitalismo, pur diversi, ebbero nel periodo della "grande crescita" postbellica la stessa tendenza a costruire sistemi permanenti di forte protezionismo sociale. E la generalità del fenomeno lascia intendere che la peculiare forma di "socializzazione dell'economia" nell'Occidente - senza togliere importanza alle fonti più remote della spinta redistributiva provenienti da lotte secolari per la civilità del lavoro - si sia semplicemente basata sull'eccesso di crescita e relativa sovrabbondanza di risorse distribuibili. Tale effetto "bolla" rendeva difficile per la politica resistere a pressioni rivendicative oppure al rigonfiamento delle burocrazie. Dava anche peculiare forza morale e di consenso ai partiti del protezionismo sociale in quanto l'evidenza della ricchezza crescente forniva un maggiore "vantaggio morale" alla richiesta redistributiva di dare ai meno abbienti un accesso per diritto alla ricchezza.
Ed il difetto venne alla luce nei primi anni 70. La crisi economica successiva all'aumento del prezzo del petrolio nel 1973 fu un elemento peggiorativo che non deve nascondere quello che in realtà é successo in quegli anni. Tutti i motori di crescita sopra citati rallentarono, chi per saturazione, chi per "esaurimento" (rappresentabile come andamento di un curva logistica che sale dagli anni 50 e diventa piatta nei 70). Ed il fenomeno fu strutturale. Da lì in poi (Giappone a parte il cui ciclo economico veniva sostenuto da una peculiare ipercapacità competitiva gestita da sistemi tipo "economia di guerra") la crescita cominciò ad essere più volatile nei suoi cicli, in Europa e Stati Uniti, nonché meno robusta. Ed il peso dei costi delle garanzie ed i difetti del loro disegno venne alla luce come vero fattore di regressione economica strutturale.
La minor crescita fu compensata da un maggior indebitamento del settore pubblico in Europa e Stati Uniti (che usavano il bilancio della difesa come agente sostituivo delle politiche assitenziali). E questo prelievo di risorse debitorie tenne in piedi sistemi che già erano sbilanciati, ritardando l'evidenza della crisi implosiva. Infatti questi partivano da condizioni di finanza pubblica abbastanza sane e quindi avevano a disposizione un potenziale di indebitamento notevole. Ciò sostenne, in Europa, il modello di "economia sociale", di fatto economia statalizzata. Oltre a pesare in forma di tasse, debito ed inefficienza, tipica della circolazione burocratica del capitale, la spesa pubblica perse progressivamente quella capacità modernizzante (per esempio, le grandi infrastrutture) che aveva avuto nel recente passato. E oltre che finanziata malsanamente da deficit e/o da tasse crescenti, divenne sempre più sbilanciata sul lato assistenziale puro e semplice. Questi costi e vincoli a carico dell'economia reale ne ridussero il potenziale di crescita. Contemporaneamente si esaurirono - o rallentarono- quei motori spontanei che avevano creato la "bolla" della grande capitalizzazione nei decenni precedenti.
Gli Stati Uniti hanno cominciato a risolvere il problema dello "sbilanciamento" già a partire dai primi anni 80 e, nei 90, sono riusciti a condurre in porto con successo la correzione dell'eccesso di garanzie ottenendo un'economia liberalizzata efficientessima ed allo stesso temp capace di diffondere socialmente la ricchezza.
Il Giappone e l'Europa devono farlo oggi, con più di dieci anni di ritardo, e con maggiori problemi di fattibilità. Il loro protezionismo sociale si é molto radicato. Inoltre l'accelerazione ed aumento di volume della pressione competitiva derivante dalla globalizzazione impongono una riforma di efficienza sempre più radicale e tempestiva, quindi sempre più difficile sul piano del consenso. In Giappone tale difficoltà crescente é esemplificata dall'aspro conflitto tra sistema della burocrazia, dei poteri corporativi, e forze liberalizzanti. In Europa dalle manifestazioni sindacali a difesa del protezionismo non più sostenibile. Ma i diversi modi di resistenza al cambiamento producono un effetto controproducente nei due sistemi: le industrie ed i capitali se ne vanno in luoghi più concorrenziali e ciò comporta una vera crisi di deindustrializzazione e disoccupazione in Europa ed un rallentamento della crescita interna in Giappone (dovuta anche al disordine delle regole finanziarie). I paesi già sviluppati, che, invece, hanno saputo compiere la riforma di efficienza, uscendo dalla trappola dello "sbilanciamento", stanno sperimentando una nuova reindustrializzazione. I dati di scenario, una volta tanto, sono molto chiari e indicano quale sia e dove stia il problema politico che aumenta o toglie competitività ad un territorio.
2.1.1. L'implosione del modello europeo
Il caso europeo è forse quello che mostra meglio come lo "sbilanciamento" sia la fonte di un'implosione auto-indotta dell'economia reale, questa, a sua volta, generatore della crisi di competitività. Nell'ambiente europeo, infatti, i sistemi di garanzia hanno preso una forma peculiarmente istituzionalizzata sia di protezione sindacale che di assistenza pubblica, oltre che di regolazione pervasiva dell'economia. L'Europa continentale si segnala, tra i tre modelli di capitalismo emersi nel dopoguerra, come quello più pesantemente sbilanciato sul piano delle garanzie a scapito dell'efficienza economica. Il modello ha cominciato ad esibire i sui difetti e pesi sull'economia quando questa ha cominciato a non crescere più spontaneamente a causa dell'esaurimento della "bolla" postbellica. La maggiore pesantezza ha creato un "tonfo" più rumoroso e più oggettivamente evidente, rendendo più chiara la sequenza "sbilanciamento - implosione - crisi di competitività - stagnazione e recessione - fuga degli investimenti - disoccupazione".
Questo quadro analitico, pur qui solo schizzato, serve a capire che la crisi competitiva non dipende direttamente dall'aumento della competizione globale di per se, ma dal fatto che economie precedentemente indebolite dall'implosione si siano trovate esposte ad essa con uno svantaggio differenziale di tipo strutturale e generale. E un forte sostegno a questa ipotesi viene dato dall'analisi di quando sia in realtà cominciato l'effetto negativo sull'economia reale europea da parte di un sistema di garanzie sbilanciato per costi e rigidità: dall'inizio degli anni 70. Infatti da allora, continuando oggi in direzione negativa, nei principali Paesi europei a Stato assistenziale :
* é stata creata più disoccupazione che occupazione;
* il costo del denaro é cresciuto più del Pil;
* l'indebitamento del settore pubblico é cresciuto;
* il carico fiscale complessivo é aumentato;
* il tasso di crescita economica é stato minimo;
* la capacità tecnologica ha perso posizioni di punta.
Questo ultimo dato, in particolare, é impressionante. Il potenziale tecnologico del sistema industriale europeo, mediamente, si é comparativamente ridotto fino ad essere terzo - e a grande distanza- da quello statunitense e, in alcuni settori, giapponese per capacità competitive.
Con questo si vuol segnalare che il modello di "capitalismo sociale" europeo é "imploso" ben prima dell'esplosione della competitività globale. E ciò é successo perché il finanziamento debitorio e fiscale dei costi delle garanzie ha depresso l'economia interna disincentivandone l'attivismo. E questo fatto di "struttura" sembra pesare di più che non quello dell'esaurimento dei fattori spontanei che avevano tirato la crescita nei decenni precedenti. In sintesi, il fenomeno - visto a consuntivo alla fine degli anni 90 - pare più un "suicidio" da parte del modello europeo che non un "omicidio" imputabile all'assassino globale.
Ovviamente la nuova competitività dall'esterno ha peggiorato le situazioni. E lo ha fatto a tal punto che, nel 1997, la maggior parte degli Stati sociali di tipo europeo mostrano la medesima situazione di regressione economica: disoccupazione a due cifre con una marcata tendenza ad aumentare o a non essere riassorbita. E ciò indica sia una causa "genetica" della crisi competitiva sia che essa riguardi proprio il modello di "Stato assistenziale" in quanto tale e non solo una sua qualche variante nazionale esposta ad anomale contingenze storiche. Per esempio, anche l'efficientissima Svizzera, con un modello di Stato sociale tra i più leggeri nell'ambito europeo, è comunque entrata in una crisi endemica che dura dai primi anni 90 in quanto il suo modello protezionista non ha permesso una riforma competitiva del sistema.
2.2. Il successo competitivo del modello liberista
E questa ipotesi viene irrobustita dalla comparazione con gli andamenti del "capitalismo liberista", riemerso negli anni 80 e primi 90 come liberalizzazione dei precedenti sistemi assitenzialisti, sia leggeri che pesanti, negli Stati Uniti, Regno Unito, paesi del Sud-America ed asiatici. Per esempio, nel 1997 la disoccupazione statunitense é sotto ill 5% dopo quattro anni di crescita economica continua che ha ridato il posto di lavoro a milioni di persone che lo avevano perduto nella recessione del 1989-1991. L'ipotesi viene ancor più rinforzata dall'analisi del caso britannico. Fino alla fine degli anni 70 il Regno Unito esibiva i sintomi di regressione economica strutturale, con andamento simile quello degli Stati sociali europei. Ma a partire dagli anni 80, con le riforme in senso liberista da parte del governo Tatcher (pur parziali perché hanno più privatizzato le imprese che non ridotto le garanzie sociali dirette), l'ambiente economico inglese ha mostrato una, pur lenta, inversione di tendenza. E, con lo scoppio della globalizzazione, questo oggi esibisce numeri più "americani" che "europei" sia in termini di riduzione della disoccupazione (attorno al 7%) che di crescita del Pil. Il che fa pensare che la faticosa - pur parziale- liberalizzazione e gli alti costi sociali di essa abbiano alla fine aumentato il potenziale competitivo del paese, premiandolo nella seconda metà degli anni 90. Questi dati, qui segnalati schematicamente e solo per fini generalistici, indicano soprattutto che la configurazione più vicina al modello liberista tende a risultare molto più competitiva del modello di capitalismo sociale nella nuova economia globale.
Adesso possiamo rispondere alla domanda di perché mai per decenni é sembrato che tre diversi modelli politici di capitalismo riuscissero ad avere il medesimo successo. La risposta è la seguente:
In sintesi, la risposta è che nell'età del turbocapitalismo solo il modello di "capitalismo liberista" appare sostenibile e che gli altri due devono riformarsi cercando di aderire a questo, rinunciando alle proprie tradizioni di capitalismi fortemente sbilanciati sul piano delle garanzie protezionistiche dirette (Europa) ed indirette (Giappone).
2.2.1. La ricerca di un modello liberista socialmente efficace
Ma, se da una parte è vero che nel "turbopresente" solo un modello di economia appare vincente - quello liberista - d'altra parte ciò non vuol dire che a tutti i paesi sia possibile adottarlo e, nelle nazioni, a tutti risulti possibile parteciparvi. E se un'economia non é accessibile a tutti, allora l'efficienza produttiva rischia di essere compromessa da un sostanziale impoverimento di parte della popolazione.
Inoltre il grado di "sostenibilità sociale" del modello liberista é oggetto di dicussione e non fatto acquisito con certezza. E lo é particolarmente in quei luoghi dove si é radicata l'abitudine alla protezione in buona parte della popolazione e le élite politiche sono condizionate da un tipo di consenso molto conservatore al riguardo del protezionismo. Dicendo così si introduce il problema che forse l'aver capito, in base all'analisi delle prestazioni storiche ed attuali, quale modello massimizzi la creazione competitiva della ricchezza, non vuol dire aver risolto il problema della diffusione sociale di essa. Infatti il modello di capitalismo liberista - quello esistente di fatto in alcune nazioni e non quello libresco- dimostra una certa incompletezza "intrinseca" sul piano della diffusività sociale della ricchezza, pur nel successo anche su questo piano sia del modello statunitense (liberismo democratico) che cinese (liberismo gerarchico).
La riforma efficientista negli Stati Uniti - le diverse ondate di liberalizzazione succedutesi dal 1980 al 1997- é stata condotta, fondamentalmente, scaricando sui cittadini l'onere di pagarsi quelle garanzie che il sistema istituzionale e delle regole non poteva più dare. La politica ha ceduto sovranità al mercato ottenendo in cambio ricchezza di massa. Ma, negli anni 80 e primi 90, la transizione verso un sistema meno protetto ha modificato in peggio, per qualche anno, la vita di una parte consistente della popolazione in relazione ad un passato più garantito. La flessibilità sia salariale che contrattuale nel mercato del lavoro si é tradotta per molti in: riduzione del reddito; instabilità del posto del lavoro; compressione verso il basso della qualità lavorativa. E ciò ha comportato un aumento dell'incertezza sociale, con picchi di ansietà, in parte della popolazione, che hanno compromesso la stabilità delle famiglie e delle relazioni di comunità.Infatti, nonstante l'economia statunitense sia stat in crescita tecnica fin dal 1991, solo nel 1995 l'indice di ottimismo degli americani è cominciato a risalire. Cosa é successo? Con sempre minori vincoli e maggiori pressioni competitive, le imprese statunitensi hanno ridotto sia personale che salari. E lo hanno dovuto fare per la pressione crescente di una maggiore concorrenzialità permessa proprio da un mercato progressivamente meno regolamentato (e che comunque partiva storicamente da una base regolamentativa e garantista molto inferiore a quella europea). In effetti ciò ha funzionato e reso molto competitive le industrie americane e più remunerativi gli investimenti su di esse. Ma ha scaricato una certa quota dell'offerta di lavoro sui piani più bassi dell'occupazione, comprimendo una certa parte della classe media statunitense verso livelli economici inferiori, o cimunque più aleatori compromettendone l'ottimismo, pur se solo per qualche anno. Va detto che questo fenomeno compressivo e selettivo si è poi risolto configurandosi come una crisi di transizione e non di struttura della ricchezza di massa. Infatti nel già nel 1995 i dati dimostravano che la transizione liberalizzante si era conclusa con il ripristino di un'economia vitale e di massa, con bassa disoccupazione, alta crescita e buoni redditi per la classe media. Ma, nonstante il successo, bisogna tener conto della selettività sociale tipica di un'economia liberista.
E' razionale farlo non al punto da mettere in ombra i risultati positivi alla fine della transizione da un sistema regolato ad uno più liberalizzato. Molte nuove opportunità per le persone che non trovavano più lavoro nei settori tradizionali, in riduzione, hanno trovato un posto in quelli nuovi e, soprattutto ben remunerato. Se, infatti, si analizzano i dati (ufficiali) sugli andamenti occupazionali e salariali dal 1990 al 1996 negli Stati Uniti, si trova non solo un veloce riassorbimento della disoccupazione indotta dalla riforma di efficienza delle imprese, ma soprattutto una tenuta dei salari, con notevoli incrementi perfino per molte parti della popolazione lavoratrice. E questi dati smentiscono chiaramente la critica spesso fatta in Europa al modello americano di conquistare più occupazione al prezzo di una compressione dei salari. A prova oggettiva c'è il fatto che nel 1996 e 1997 la banca centrale statunitense è preoccupata di un ritorno dell'inflazione prorio a causa dell'aumento dei salari generato dal raggiungimento della piena occupazione. Certamente c'é stato un fenomeno di forte sofferenza sociale, ma é durato poco. Questa critica voleva dimostrare che la massa di disoccupati europei equivaleva a quella dei sotto-occupati statunitensi. Ma la realtà mostra il contrario, favorendo l'ipotesi che il modello liberista americano abbia saputo coniugare efficienza economica ed efficacia sociale.Ciò significa che in un sistema flessibile, e dotato di basi per l'innovazione e la produttività, c'é un'alta probabilità che emergano nuove opportunità economiche sostituive di quelle che muoiono. Ed il riscontro sociale di questa buona evoluzione lo si trova nel fatto che nel 1997 l'indice di ottimismo della società americana é tornato talmente alto, dopo essere stato basso per alcuni anni, fino al punto di sottostimare i segnali di rallentamento del ciclo di crescita (per altro è tipico che la gente si accorga dei cambiamenti di ciclio con un certo ritardo temporale). Da questo esame fattuale dovremmo concludere che la liberalizzazione competitiva, pur producendo una transizione selettiva e per la popolazione che é costretta a passare da un ambiente protetto ad uno più mobile, tende ad avere un premio economico e sociale di massa tanto robusto da rendere complessivamente accettabile il prezzo della transizione stessa.
Ma viene il dubbio che il buon esito sociale in tempi relativamente brevi di una riforma liberista sia più basato sulla specificità statunitense che non su possibilità generalizzabili. Infatti il mix tra risorse tecnologiche, ottime fonti educative e scientifiche, cultura dell'attivismo, densità di capitale, potenza strategica, scala del mercato interno, ecc., che esibisce l'ambiente nordamericano, é cosa unica - al momento - nel pianeta. E questo fatto deve far pensare in termini interrogativi. Soprattuto spinge a vedere altri casi comparativamente. Quello inglese dimostra il medesimo buon esito della riforma di efficienza, ma tempi più lunghi e costi sociali di transizione più alti. La mancanza nel Regno Unito di alcuni fattori di potenza e varietà economica presenti invece negli Stati Uniti, nonché una base di partenza peggiore definita da una deindustrializzazione che aveva assunto carattere strutturale negli anni 60 e 70 (per altro iniziata ai primi del secolo) ha certamente fatto la differenza. Questo esito, pur accettabile, mostra come il successo sociale delle liberalizzazione tende a dipendere da condizioni "rare".
Altri casi, come la liberalizzazione, negli anni 90, in Nuova Zelanda ed Australia da un regime statalista di tipo europeo sembrano confermare che anche in ambienti diversi il modello liberista riesca ad unire l'efficienza competitiva con l'efficacia sociale. Ma transizioni verso il liberismo in altri paesi a minore tradizione di efficienza istituzionale (per esempio, Argentina e Cile) lasciano intendere quanti precursori "sofisticati" siano necessari per ottenere un liberismo socialmente efficace. Se poi l'analisi prosegue nei paesi che stanno liberalizzando a partire da condizioni di sottosviluppo (per esempio, i paesi dell'ex-impero sovietico) é facile notare come l'applicazione del modello di liberismo economico in assenza di istituzioni, sistemi educativi e di investimento sociale adeguati, produca un altissimo costo sociale del cambiamento.
Tuttavia se aggiungiamo il caso dei paesi asiatici che stanno decollando partendo da zero troviamo che la liberalizzazione in condizioni di sottosviluppo riesce ad avere un'efficacia sociale immediata. Solo che questo dato é reso parziale e provvisorio da alcuni fatti. La fase di "boom" a partire dal sottosviluppo produce un prima capitalizzazione generalizzata perché comunque mette più denaro in tasca a tutti. Ma subito dopo comincia un effetto selettivo. I giganti e pesi medi asiatici si sono messi in moto solo da poco ed é appena iniziata la fase veramente selettiva della crescita economica. Non c'é ancora, quindi, evidenza fattuale per poter capire come, e se, un forte sbilanciamento del modello verso l'efficienza economica possa produrre direttamente un diffusione sociale della ricchezza omogenea al punto di formare una grande classe media, maggioritaria, cioè il capitalismo di massa.
Un altro punto interrogativo é l'evoluzione dell'architettura politica in quei paesi. Al momento il modello asiatico tende a comprimere la democrazia separandola dal liberismo economico. Ma questo "liberismo senza liberalismo" potrebbe trovarsi privo delle risorse politiche di stabilizzazione sociale quando il sistema economico comincerà a produrre differenze selettive marcate nella società. Nel presente questi sistemi - si pensi a quello cinese in particolare - restano stabili proprio perché non c'é democrazia ed il potere scarica sui cittadini il problema di trovarsi garanzie "di fatto" dando loro in cambio la libertà economica per farlo. Questo approccio funziona perché é in atto una crescita sovracapitalizzata. Ma é difficile prevedere se un tale modello possa tenere o meno nel prossimo futuro.
Cerchiamo di arrivare a qualcehe conclusione sintetica. Appare chiaro che una situazione di forte crescita economica é un risolutore "di fatto" dei problemi di bilanciamento del modello politico. Sul piano concettuale può apparire ovvio, ma é sempre saggio riverificare le ovvietà sul piano fattuale. Un altro dato evidente é che la mondializzazione del turbocapitalismo ha reso insostenibil tutti i modelli basati su una socializzazione dell'economia fortemente vincolante. E questo perché deprimono la creazione della ricchezza e, quindi, rendono impossibile sia il finanziare virtuosamente le garanzie protezioniste (il che rende di fatto "non sociale" lo Stato sociale) sia il dare ad un territorio una configurazione competitiva nei confronti di sistemi che adottino il capitalismo liberista. Il confronto storico tra liberismo e garantismo economico é finito con una clamorosa sconfitta fattuale del secondo. E la teoria dell'economia tecnica da esso proposta, nelle molte varianti che vanno dallo statosocialismo spinto al solidarismo redistributivo più moderato, é smentita dai fatti.
Questo risultato così netto risolve molti problemi concettuali, ma non quello principale nella ricerca delle condizioni che permettono il capitalismo di massa. Anche la teoria liberista é messa parzialmente in crisi dall'instaurarsi storico del turbocapitalismo globale. Non si può infatti provare che il risultato più probabile di una liberalizzazione porti allo stesso tempo ricchezza e diffusione sociale di essa. Si può solo provare che la liberalizzazione, il metodo della libertà, sia capace di incrementare la creazione della ricchezza. Ma la sua diffusività resta aleatoria o, comunque, determinata da condizioni rare. Trovare una correzione "garantista" del modello liberista non é facile. Infatti il fallimento evidente delle opzioni redistributive mostra che una correzione del liberismo basata su di esse ne soffocherebbe il motore di creazione della ricchezza.
Certamente molto può essere fatto nell'inventare forme di "garanzie" configurate come "investimenti" e non più come assistenza redistributiva, quindi più naturalmente compatibili con i requisiti di efficienza economica. Ma, anche prevedendo risultati consistenti, questo nuovo tipo di "garanzie-investimenti" non avrà mai, comunque, capacità strutturali di risolvere il "dilemma di bilanciamento" in forma stabile. Quindi, pragmaticamente, é più utile mettersi nella prospettiva di tentare di potenziare il modello liberista senza voler risolvere a tutti i costi un "dilemma di bilanciamento" che appare, oggi, irrisolvibile e che, forse, é probabilmente impossibile cercare di risolvere avendo la stessa complessità di una quadratura del cerchio.
2.3. Dallo "Stato sociale" allo "Stato della crescita"
La progettazione pragmatica dei modelli politici dever tener conto di una realtà di fatto. Maggiore é la crescita economica, minore é la necessità da parte dei governi di fornire protezioni sociali. E, in tal modo, si evita di dover risolvere in modo "perfetto" il dilemma del bilanciamento. Un sistema costantemente in crescita può restare più sbilanciato verso i requisiti di creazione della ricchezza in quanto la forte crescita continua la diffonde naturalmente nella popolazione, lasciando solo un piccolo residuo di essa con bisogni di solidarietà che richiedono il sostegno redistributivo. Solo in tal caso questo rimane sostenibile senza pregiudicare la crescita.
Questo non vuol dire che lo Stato non debba più dare garanzie. Semplicemente significa che deve dare nuove garanzie mirate a rendere competitivi i singoli individui ed il territorio. In altre parole, lo Stato non deve perdere necessariamente la propria "socialità" per conquistare una nuova efficienza. Al contrario deve trasformare la "socialità" come garanzia che gli abitanti di un territorio abbiano le migliori condizioni di accesso alla competitività economica (più competenze individuali e maggiori opportunità a livello di sistema).
La prospettiva può essere semplificato così dal punto di vista di chi ora vive ed opera in ambienti ad alte garanzie economiche e regolamentari. Basta chiedersi se é più garantito un lavoratore il cui posto é molto protetto, ma che quando lo perde fa un'enorme fatica a trovarlo, oppure se lo é uno che é meno protetto, ma che quando viene licenziato passa ad un altro lavoro con facilità e presto. Se si valuta il fatto che i posti di lavoro non possono essere garantiti in modo assoluto in un mercato concorrenziale, la risposta é semplice. O si elimina la concorrenza (ma poi la ricchezza non viene più creata) oppure la seconda opzione é quella che fornisce più garanzie al lavoratore in quanto ne aumenta il numero di opzioni. E questo calcolo lo può fare chiunque o usando il buon senso o i più raffinati schemi logici di computo reazionale delle utilità.
Ciò significa che le garanzie economiche più solide implicano la realizzazione di due condizioni preliminari, o, più tecnicamente, di due "precursori di configurazione politica del sistema": (a) qualificazione competitiva degli individui; (b) ambiente economico liberalizzato per generare un numero elevato di opportunità, cioè la tendenza costante dello Stato a favorire la crescita economica, da cui il nome del nuovo tipo di Stato sostitutivo del welfare t radizionale. Una tale architettura politica del mercato in un territorio massimizza le probabilità di crescita economica e minimizza la quantità di individui che devono ricorrere alla protezione finanziata con il fisco e regolamentazioni protezionistiche. Quindi tasse e vincoli, che tipicamente soffocano la creazione della ricchezza, possono restare molto bassi, dando al territorio un pre-assetto competitivo sul piano dei costi di impresa e della flessibilità, diventando così remunerativi per gli investimenti di capitale.
In questo quadro la missione dello Stato - e quella di una comunità locale con sufficiente autonomia - sarebbe quella di predisporre e tutelare le condizioni di competitività degli individui e del territorio. Le nuove garanzie avrebbero la forma di "garanzie competitive". E sarebbero finalizzate a tenere costante la possibilità del sistema di crescere economicamente. Questa forma di socialità dello Stato non finanzierebbe più direttamente il benessere attraverso assitenzialismo e protezionismo, ma lo farebbe indirettamente rinforzando ed ampliando le condizioni che favoriscono la crescita economica. Ecco perché la denominazione del "nuovo Stato" dovrebbe essere quella di "Stato della crescita". Potrebbe, volendo, anche essere chiamato "Stato sociale del 2000" e la sostanza non cambierebbe in quanto muterebbero sì le forme della socialità, ma non il fatto che essa debba caratterizzare la missione dello Stato.
Il punto critico nel ridisegno della missione politica a ridosso - ed in adeguamento alla nuova economia competitiva - non sta solo nell'abbandono delle vecchie garanzie in favore delle nuove sopra dette. Le nuove, infatti, porterebbero certamente ad una maggiore capacità di creare la ricchezza in un dato territorio, ma non darebbero con altrettanta certezza una diffusività della ricchezza nella popolazione. Infatti esse sbilancierebbero il sistema dandogli più efficienza e meno redistribuzione (e protezioni). Come ribilanciarlo in questo nuovo assetto? Stabilito che il ritorno a garanzie redistributive (oltre la soglia delle solidarietà necessarie) sarebbe un costo ed un peso, non resta altro che tenere costante il più possibile la dimensione della crescita. Una crescita robusta e - mediamente - costante provoca forme di capitalizzaizone "naturale" di un territorio che non hanno bisogno di essere governate in dettaglio. Se un governo nazionale o locale é in grado di sostenere una crescita costante, allora si può liberare del problema di gestire direttamente i flussi di diffusione del capitale. Banalizzando, più un primo ministro - o equivalente - firma accordi commerciali all'estero, crea soluzioni attrattive per gli investimenti sul territorio, favorisce innovazioni continue, meno il sistema pubblico sarà caricato di problemi di assistenza. In sintesi, lo Stato della crescita, per funzionare, richiede - oltre che (nuove) garanzie di investimento competitivo sugli individui ed un assetto liberalizzato al territorio - che la politica aumenti il proprio grado di attivismo e successo medio nel conquistare opportunità di crescita. Questo punto, in realtà, é quello più cruciale per compensare sul piano dell'efficacia sociale lo sbilanciamento di un sistema verso una maggiore efficienza. Vediamolo, per quanto qui possibile, con maggior dettaglio.
2.3.1. La complessità politica della riforma competitiva
La nuova missione della politica nell'economia globale é - e sarà oggettivamente sempre di più - quella di attrarre capitali sul proprio territorio ed estrarne sempre più valore aggiunto che alimenti i redditi dei cittadini residenti (cioè crescita del Pil territoriale combinato con la diffusività degli incrementi (non inflazionistici) dei redditi individuali). Se si tollera un'immagine metaforica, la politica - nel suo essere produttore di garanzie- non potrà più essere a presidio del porto sicuro dove si rifugiano le navi quando c'é tempesta, ma, piuttosto, al comando della nave impegnata a superare i marosi della nuova concorrenzialità. Si possono stabilire regole competitive di carattere generale, una sorta di manuale per questa nuova navigazione negli oceani competitivi ? La risposta é "no" in quanto la mutabilità tipica di un ambiente competitivo tende a modificare continuamente i parametri di vantaggio e svantaggio. Tuttavia sono individuabili i problemi ed alcune tendenze di fondo.
Alcuni pilastri dell'architettura politica del mercato di un territorio necessari a renderlo (pre)competitivo non sono di difficile determinazione: massima defiscalizzazione, minima burocrazia, regole flessibili per il mercato del lavoro, sicurezza civile e di polizia, procedure legali celeri e certe, tutela dell'ambiente e buona manutenzione di esso, sopratutto sul piano della qualità degli ambienti urbani. Il loro insieme costituisce quella parte della missione competitiva che attrezza un territorio per essere pre-competitivo. E su questo piano la concorrenza tra territori, nel mercato globale, si farà sempre più feroce man mano che il "mondo del capitale" raffinerà e potenzierà la sua capacità di gestire l'informazione e la mobilità dei cicli di investimento. Per essere chiari, più il capitale aumenterà le sue capacità di scelta e mobilità internazionale, più i territori saranno selezionati, prima di tutto, in base alla loro concorrenzialità sul piano dei fattori di base detti sopra. Già oggi questo fenomeno é in atto e lo si può proiettare come crescente e generalizzato nel prossimo futuro.
Ma a parità di condizioni concorrenziali "passive" tra territori - per esempio una fiscalità pari al 20% massimo di tassazione per le imprese e lo stesso grado di buongoverno, in generale - saranno sempre più decisive le azioni di "competitività attiva", da intendersi come azione diretta di una comunità territoriale per andarsi a prendere di "forza" il capitale di investimento che circola nel pianeta alla ricerca delle migliori opportunità. Se è abbastanza chiaro quello che la politica dello "Stato della crescita" dovrà fare in termini di riforma dei territori sul piano dei fattori competitivi "standard" (detti sopra), resta tuttavia altamente indeterminato quello che la politica dovrà e potrà fare in termini di competitività "attiva". Sarebbe banale dire solo questo se non si aggiungesse che tale indeterminazione resterà molto probabilmente irrisolvibile. La politica, in altre parole sarà chiamata a prestazioni di competitività "attiva" senza che per esse vi possa o potrà essere alcun quadro di riferimento permanente. Dovrà, in altre parole, "navigare a vista".
Non é vero che nel nuovo mondo dell'economia competitiva ci vorrà "meno Stato e più mercato". Al contrario ci vorrà "più Stato" capace di sostenere la competitività di un dato territorio (nazionale o locale) nel mercato. Ovviamente ci vorrà "meno Stato" nel senso di dirigismo burocratico dell'economia o di assitenzialismo protezionista e relativi apparati ( cioè meno Stato "estensivo"). Ma sarà necessario avere "più politica" capace di conduzione strategica dell'economia competitiva di un territorio (più Stato "intensivo"). Nei sistemi politici di ambiente europeo tuttora prevale il modello di "sbilanciamento" per eccesso di garanzie, cioè dell'idea che "il mercato debba dare garanzie e lo Stato ricchezza". Tale modello é, nei fatti, imploso su se stesso e la sua sostenibilità é risultata smentita dai fatti. Da questo dato si tratta di ridare ai due soggetti, Stato e mercato, una missione che realisticamente possa essere compiuta con efficacia sinergica. Tuttavia non basterà (tornare a) dire, più correttamente, che "lo Stato deve dare garanzie e tocca al mercato produrre la ricchezza". Bisognerà specificare quali "nuove garanzie" renderanno il ruolo dello Stato sinergiche con quelle del mercato. Esse non potranno più essere "redistributive" se non per la quota necessaria di solidarietà basica. Dovranno essere "garanzie competitive" - per ciascun territorio - e per elaborarle sarà necessaria una grande riforma degli stili e metodi politici e non certo una di piccola entità.
L'enfasi su questo ultimo punto vuole segnalare che la politica dovrà aumentare la propria qualità di fondo e flessibilità strategica. Dovrà semplificarsi e dotarsi di strumenti conoscitivi ed operativi estremamente efficienti. Una parte della riforma competitiva della politica (sia a livello nazionale che locale) dipende certamente da un incremento della capacità di attuare "manovre di competitività diretta ed attiva" da parte dei politici e, quindi, dei sistemi tecnici che li assistono.
Meglio dare un esempio per chiarire che non si sta prevedendo l'emergere di una improbabile figura del politico imprenditore, ma di una politica a sostegno diretto delle imprese. Per esempio, la comunità di Spartanburg, negli Stati Uniti, era in competizione con un'altra per attrarre sul suo territorio l'insediamento di una fabbrica della Bmw. Ha vinto perché é riuscita a riconfigurarlo in base a ciò che l'investitore richiedeva. E ci sono volute modifiche di grande entità (nuove infrastrutture) e di notevole difficoltà politica (spostamento di residenze), nonché una forte capacità della comunità locale di interagire con quella superiore dello Stato per ottenere le flessibilità e gli incentivi di competenza di quest'ultimo. La complessità di questa operazione di concorrenzialità attiva é stata, si scusi l'enfasi, enorme se rapportata ai carichi ordinari del sistema politico locale, tra l'altro zona ad economia depressa. Ma, in quel caso, le istituzioni sono riuscite a fare un salto di qualità nel loro essere capaci di creare situazioni di attrazione del capitale. Ed infatti questo é venuto portando la speranza di reddito dei residenti da circa 6 dollari l'ora (salario medio nell'industria del pollame) a quasi il doppio. In questo caso la "politica" non ha agito in forma imprenditoriale "diretta", ma ha organizzato la composizione degli interessi e misure tecniche che hanno incrementato la concorrenzialità attrattiva del territorio (per altro già alta sul piano dei fattori pre-competitivi tipici del mercato statunitense: tassazione moderata, flessibilità del mercato del lavoro, ecc.). E questo é un buon esempio di "concorrenzialità attiva" dove il punto non é tanto o solo la capacità di "marketing territoriale", quanto quella squisitamente politica di creare il consenso nella comunità per i cambiamenti necessari alla concorrenzialità. Questo é importante se comparato ad analoghi casi in Europa dove si é visto che la politica non é riuscita a superare la difesa di interessi conservatori per dare più concorrenzialità al territorio.
L'esempio dato sopra implica che una buona combinazione tra flessibilità delle regole e qualità operativa della politica é un ingrediente fondamentale per la competitività territoriale. Ma, in generale, la conduzione politica si sta trovando sempre in difficoltà nel conciliare scelte efficienti e rispetto della mediazione tra diversi interessi. Non é un momento facile per la politica. Inventare garanzie redistributive in fasi di crescita spontanea é facile. Basta fare una legge che implichi un tassa sulla ricchezza crescente. Creare garanzie competitive "non-redistributive" é certamente più difficile. Negli Stati Uniti la riforma del welfare é stata possibile perché il cittadino statunitense era già storicamente abituato a non aspettarsi troppe garanzie protezionistiche. Ma negli Stati sociali europei la maggioranza dei cittadini é da decenni abituati all'idea di essere tutelati dai poteri pubblici, fino al punto da rendere cultura dominante - e vera e proria teoria economica e sociale, nonché politica - l'esotico concetto della "ricchezza per diritto". In tale ambiente culturale la scoperta delle nuove verità competitive e dell'insostenibilità tecnica dell'assistenzialismo é e sarà sempre più devastante nella psicologia di massa. Ciò renderà più spugnosa ed ostacolata la riforma di competitività nei singoli territori, per crisi di consenso, esponendoli al rischio crescente di impoverimenti sostanziali. E' cosa nota, ma va ricordata come difficoltà oggettiva della politica nel poter realizzare le contromisure di rilancio competitivo nei territori ad alta tradizione protezionista.
E la difficoltà non é tanto quella di saper disegnare, in teoria, il nuovo "Stato della crescita". Per esempio, circolano molte idee tecniche e progettuali al riguardo delle nuove garanzie competitive come sostituzione di quelle redistributive. Tra queste, sono più facilmente comprensibili quelle che riguardano la qualificazione educativa (di base e continua) del capitale umano affinché ogni individuo abbia più capacità per cogliere le opportunità di un mercato sempre più dinamico. La stessa "sinistra", negli Stati Uniti, ha ormai abbandonato l'idea di generalizzare protezioni sociali sostituendole con un miglior accesso di massa alle risorse di mobilità intellettuale (si veda il programma e l'azione di governo dell'amministrazione Clinton). E c'èun particolare buffo e poco noto. Inizialmente l'amministrazione Clinton aveva puntato su una profonda riforma delle regole del lavoro in senso più garantista. Ma, essendosi accorti che la relativa deregolamentazione in atto stava funzionando producendo occupazione crescente, l'amministrazione ha rinunciato a cercare di imporre le sue idee di sinistra in materia perché avrebbero creato il rischio di rompere un delicato meccanismo che stava dimostrandosi efficace. La sinistra si è limitata a predicare il miglioramento della formazione del capitale umano. Il che va benissimo. Questo particolare sembra molto indicativo.
La vera difficoltà, piuttosto, riguarda; - soprattutto nell'ambiente europeo - la transizione dal vecchio Stato (Welfare State) a quello nuovo, Stato della crescita (Growth State). Risulta praticamente irrisolvibile il problema di gestire l'intervallo di tempo tra la cancellazione delle vecchie garanzie e gli effetti di ricchezza dovuti al realizzarsi di quelle nuove. Qualcuno potrebbe dire che basta fare più crescita e questo intervallo si abbrevierebbe e l'impatto sociale della transizione si ridurrebbe. Vero. Ma si vede dai dati recenti che gli europei riescono a fare crescita attraverso le esportazioni nel mercato globale che le assorbe sempre di più, ma che questa non comporta né nuova occupazione né tantomeno il mantenimento di quella esistente. Il motivo è semplice ed è noto aagli studiosi come problema della "jobless growth". Le aziende che esportano non sono incentivate a fare più occupazione perché sono sottoposte a duna concorrenza che in ogni caso impone loro di ridurre i costi. Caso mai automatizzano di più. Inoltre non c'è l'incentivo ad assumere più personale perché ciò implicherebbe più costi fissi e duraturi date le regole rigide dei sistemi ad alta protezione sociale. Quindi per fare più crescita seguira da occupazione si dovrebbe liberalizzare il mercato del lavoro, ridurre le tasse e deregolamentare. Cosa che significa togliere garanzie reali ed in atto senza che quelle potenziali e promesse abbiano dimostrato ancora la loro fattibilità. Il problema, così, si fa tautologico. Ed é naturale che un gran massa di cittadini - in ogni Stato europeo - non sia disposta a dare facilmente il consenso alla riforma competitiva. Ma, purtroppo, anche se non avviene nella forma, questa sta avvenendo nei fatti. La disoccupazione aumenta e la flessibilità del mercato del lavoro viene ottenuta attraverso una costosa e distorta "riforma di fatto" guidata dalla necessità e dall'emergenza: i salari vengono compressi per tentare di salvare posti di lavoro in una situazione in cui la domanda di essi é depressa. Oppure, chi é disoccupato deve per forza arrangiarsi con lavori informali, in nero. L'ambiente europeo é omogeneo nella crisi. Ma la riforma competitiva tenderà a realizzarsi di fatto, con alti costi sociali, ed il consenso emergerà - probabilmente - solo dopo l'evidenza oggettiva che il sistema di protezionismo economico é la vera causa della deindustrializzazione e relativo impoverimento. In sintesi, il sistema europeo certamente cambierà, ma lo farà in tempi e modi socialmente costosi. Soprattutto, la spugnosità del consenso metterà molti territori (nazionali e sub-nazionali) in una situazione di ritardo competitivo difficilmente recuperabile in tempi brevi.
A questa complessità va aggiuntto che la crescente competitività globale, comporterà la ricerca di una maggiore autonomia da parte dei singoli territori sub-nazionali che si trovino in nazioni intrappolate nel ritardo oppure in situazioni geo-economiche che comunque impongono una maggiore autonomia per accrescere la concorrenzialità. Va sottolineato che il ricorso all'autogoverno locale é comunque una parte della riforma competitiva. Tale assetto, infatti, permette di creare con più flessibilità i "differenziali" concorrenziali per l'attrazione del capitale. Uno Stato nazionale, a meno che non sia completamente liberalizzato e basato su un'architettura federale, non ha la possibilità di combinare regole generali con requisiti competitivi locali, soprattuto se esiste una pressione del mercato che tende ad aumentare i secondi. Queste tendenze potrebbero comportare una crescente richiesta di autonomia da parte dei territori locali in Stati centralizzati. Ma potrebbe anche creare una spinta ad una maggiore autonomia nei luoghi che già ce l'hanno. E questo probabile sviluppo é un problema in più nel già complicato quadro dei compiti di riforma e gestione che dovrà affrontare la politica (nei diversi livelli territoriali) per la necessaria transizione competitiva.Ma è un problema in relazione ai criteri dei sistemi centralisti. In realtà la maggiore distribuzione dei compiti concorrenziali verso i livelli locali è una bella fetta della soluzione del problema di riforma competitiva.
2.3.2. L'evoluzione dallo Stato delle garanzie alla "comunità competitiva"
Quanto detto sopra serve a mostrare quale sia il grado di complessità combinatoria che la politica occidentale, in particolare quella dei paesi europei, deve affrontare per dare o mantenere speranza di ricchezza al territorio di cui é responsabile. E questo é un dato che lascerebbe aperto ed irrisolto lo scenario del prossimo futuro.
In realtà possiamo chiuderlo tentando, non tanto una previsione, quanto la definizione di un "requisito" di sopravvivenza per i territori - nazionali e locali - esposti alla nuova selettività e complessità dell'ambiente globale. Avranno successo quelli che sapranno trasformarsi in "comunità competitiva" capace di adottare regole flessibili per attrarre capitale in base alle contingenze e di produrlo con più valore aggiunto grazie alla costruzione di possibilità concorrenziali innovative. Soprattuto la "comunità competitiva" dovrà essere caratterizzata da forme altamente istruite di conduzione politica e culturale, cosa che non può emergere se non con un incremento qualitativo delle élite che esprimono o influenzano la selezione, o alimentano, la classe politica.
Nell'aumento della selettività competitiva, il successo concorrenziale di un territorio dipenderà sempre più dalla capacità di attuare scelte strategiche "forti". Significa dover scommettere di più e più intensivamente sulla creazione di fattori permanenti in grado di dare un vantaggio competitivo per il territorio. "Forte" vuol dire che il vantaggio comeptitivo dovrà essere valutato non solo in realzione ai territori vicini, ma sempre di più con quelli del pianeta intero. E questo é facilmente comprensibile se si valuta che il mercato diventerà sempre più mobile, estendendo la quantità di riferimenti geoeconomici con cui una nazione o un terriotorio sub-nazionale deve fare i propri conti concorrenziali In sintesi, senza scelte "forti", intese come strutturazione di vantaggi competitivi di valore globale, un territorio sarà più vulnerabile alla concorrenza. Questo non é un contrario della flessibilità e del criterio di gestione di contingenza delle situazioni. Solo che questo metodo dovrà integrare il primo, quello delle "scelte strutturali forti, combinandosi con esso, ma non potrà sostituirlo.
Nella sua organizzazione interna, la comunità competitiva dovrà acquisire il massimo di flessibilità. Essa assicurerà la concorrenzialità sui fattori pre-competitivi di attrattività del capitale (basse tasse, mercato del lavoro deregolamentato, ecc.). E ciò produrrà un assetto orientato alla crescita ("sbilanciato in avanti") che compenserà una relativa instabilità sul piano delle garanzie fisse, cioè una riduzione di queste ultime perché non sostenibili nell'ambiente della nuova concorrenzialità. Il cerchio non va quadrato, ma fatto correre.
Prorio per realizzare in pieno il requisito di flessibilità, i grandi e medi Stati nazionali dovranno dare più autonomia ai territori sub-nazionali. La differenziazione territoriale serve per aumentare la varietà di opzioni competitive generando modelli locali di capitalismo competitivo che meglio interpretano le specificità concorrenziali dei singoli territori. Questo non vuol dire assolutamente che la "frammentazione politica" degli attuali "sistemi paese" sarà il destino più probabile o la configurazione più efficiente. Significa, invece, che ogni unità territoriale locale dovrà reinterpetare la propria specificità per estrarne più competitività potenziale.
Tale soluzione richiede, per ciascun territorio locale di ogni paese, la possibilità di esercitare un notevole grado di autogoverno. Ciò sta già favorendo i sistemi federali o confederali e mettendo sotto tensione quelli centralizzati che dovranno, per questo, cambiare presto configurazione istituzionale. Ma l'autonomia formale di un territorio é solo un pre-requisito di sopravvivenza concorrenziale. Il vero requisito é che l'autonomia formale sia riempita di qualità competitiva. Ciò implica una profonda riforma istituzionale, in particolare nei sistemi dell'Europa continentale. Ma più che nuove formule di "governo formale" è importante individuare nuovi modelli di conduzione politica flessibile,
La "comunità competitiva" é una struttura di regole ed istituti informali che raccorda i diversi attori rilevanti nel territorio. Non va confusa con il "consociativismo" o con il metodo della "concertazione". Questi stili politici, infatti, tendono ad "obbligare" le parti ad un accordo. E ciò comporta il più delle volte il sacrificio di requisiti tecnici ed operativi utili per la competitività economica in cambio del consenso. La competizione globale, che impone una ricerca esasperata dell'efficienza ad ogni livello possibile, non può ammettere il ricorso a tali procedure costose sul piano dell'efficienza stessa. D'altra parte non può nemmeno ammettere un grado di conflittualità eccessivo tra gli attori sociali ed economici.
La soluzione del problema é quella di aprire una consultazione informale tra tutti gli attori che individui una sorta di manifesto per la competitività del territorio di riferimento. Esso farà le veci di una "costituzione di fatto" che regolerà le relazioni politiche e dei gruppi di interesse, ispirata dalla comune convergenza verso l'assetto competitivo del territorio. In sostanza, tale "patto di competitività" sarebbe un accordo preventivo di base che diminuisce il ricorso successivo a negoziazioni dettagliate e conflittuali sui singoli punti. L'idea é quella di scrivere una piattaforma programmatica che ottenga il consenso preventivo di tutti gli attori rilevanti e che determini la compressione dei conflitti politici, sindacali e di interessi nello svolgimento del programma stesso.
Ovviamente qualsiasi patto territoriale di competitività deve basarsi sul principo di lasciare il proprio mercato aperto verso l'esterno ed evitare qualsiasi protezionismo esasperato. Ma, dentro questa regole basica il cui mancato rispetto potrebbe pergiudicare la globalizzazione e quindi la ricchezza per tutti, ciascuna comunità è libera di darsi la strategia che gli pare.
La configurazione specifica di questo patto preventivo non é cosa che interessi qui dettagliare. L'importante é che esso venga fatto. Si raccomanda l'informalità dell'atto affinché esso possa contenere possibilità e linguaggi che non necessariamente possono essere ospitati dai più formali ambiti politico-istituzionali. Ma se fosse possibile una istituzionalizzazione andrebbe bene anch'essa. Comunque ciò che é importante é la sostanza che ridurrà il conflitto nel processo, eventuale, di cambiamento
La formazione della "comunità competitiva" implica anche dei passaggi istituzionali, di carattere formale, non di poco conto sia sui piani nazionali che locali.. Le decisioni politiche devono avere la possibilità di essere più nette, veloci ed operative. Il potere esecutivo deve essere rinforzato e quello legislativo più specializzato per funzioni di controllo. La forma elettorale-isituzionale migliore é quella dell'elezione direttta di un'amministrazione esecutiva in modo separato da quella parlamentare. E il potere legislativo deve dare un'ampia legge delega all'esecutivo affinché esso possa prendere decisioni programmatiche veloci in un dato arco di tempo. In generale, si tratta di semplificare il processo politico. Non necessariamente quanto detto sopra deve tradursi in "forma". L'Importante é che si raggiunga la sostanza del governo per "amministrazione", cioè di un esecutivo non eccessivamente vincolato (dai partiti e, spesso, dalle lobby che ne orientano i comportamenti) ed in grado di governare con un'ampia discrezionalità (per altro regolata dalla funzione di controllo del potere legislativo e sempre accessibile alla trasparenza).
Ma le istituzioni principali della "comunità competitiva" sono le fondazioni e le associazioni private. Esse raccolgono fondi e li indirizzano nel senso della direzione competitiva della comunità. La politica deve favorire al massimo la formazione di tali fondazioni ed associazioni attraverso incentivi fiscali e in genere. Questi soggetti dovranno occuparsi della propulsione diretta ed indiretta verso l'orizzonte competitivo. In generale, la loro varietà di iniziative dovrà aumentare la qualità complessiva del territorio, dal rinforzo delle iniziative utili alla formazione del capitale umano alla manutenzione dell'ambiente.
In particolare le "fondazioni" (termine con il quale qui si indica la generalità delle possibili istituzioni private senza scopo di lucro dedicate ad azioni pro-sociali) dovrebbero occuparsi della qualificazione dei fattori pre-competitivi. Nel periodo storico in cui l'ambiente privato non era capitalizzato a sufficienza, è comprensibile che lo Stato abbia assunto direttamente responsabilità di modernizzazione. Ma nel presente, ed in Europa, questo non è più vero. Quindi i poteri pubblici possono ritirarsi da molte funzioni modernizzanti incentivando il settore privato a svolgerle. Ma ciò diventa a sua volta "istituzione" in quanto si tratta di un settore privato organizzato per svolgere funzioni sociali. Il "privato sociale". E l'elemento sociale del privato va molto enfatizzato nella forma organizzativa regolata dalle leggi. E' una nuova struttura intermedia tra Stato e mercato, proprio per questo denominata usualmente come "terzo settore". Lo Stato non riesce ad essere efficiente nella qualificazione della comunità in quanto può solo procedere, o tende, con metodo burocratico. Questo è molto noto e non occorre starci sopra molto. Ma ciò non vuol dire che lo spazio lasciato libero dallo Stato debba essere preso dal mercato. Un tipico soggetto di mercato, infatti, investe su un'inizativa specifica un capitale da cui si aspetta un ritorno. E' difficile che il "mercato", di per se, si occupi di investimenti o troppo a lungo o troppo distanti dal sentiero di remuneratività. Infatti, di solito é il denaro pubblico che si occupa di quegli investimenti necessari per la qualificazione generale del territorio, ma che sono all'esterno dell'orizzonte del mercato. Tuttavia la gestione burocratica di essi tende a dissipare risorse (costi dell'apparato di intermediazione) e ad ottenere risultati mediocri. La soluzione é quella di affidare parte degli investimenti pre-competitivi alla gestione privata non-profit per dare loro efficienza finanziaria ed efficacia maggiore.
Un campo molto importante per l'attività delle "fondazioni" é quello della solidarietà. Il loro supporto integrativo all'assistenza pubblica ne diventa motivo di efficacia maggiore, anche rilassandone i carichi. Soprattutto porta la solidarietà ad una gestione privatistica che, entro regole di comportamento corretto, la può rendere immensamente più efficiente della gestione burocratica.
In questa linea, diminuisce di fatto il carico di impegni per il potere pubblico. Esso può quindi dedicarsi meglio ai compiti essenziali nei quali non può essere sostituito e semplificarsi. Ovviamente, detta così, l'immagine appare attrattiva e fattibile. In realtà tale evoluzione tende a togliere alla politica molti spazi di potere. Implica anche una riduzione della burocrazia. Questi due fatti possono produrre una forte resistenza al cambiamento. Ma se esso non avviene, la "formattazione" pre-competitiva del territorio sarà inadeguata per sostenere obiettivi concorrenziali ambiziosi.
Capitolo 3
La necessità di una nuova architettura politica del mercato globale
Il processo di globalizzazione è in atto, ma siamo molto lontani dalla formazione di un vero e proprio mercato globale. Le tante caratteristiche dette al riguardo del turbocapitalismo possono essere riassunte in una sola: é un sistema condannato sempre a crescere perché compensa i suoi squilibri correnti attraverso una crescita ulteriore. E' una sorta di sistema regolato dal futuro più che dal presente-passato. E' un nuovo oggetto della storia: una macchina culturale-politica-economica che non può esssere fermata e riaccesa. Deve stare sempre in moto e crescere indefinitivamente. La società globale in formazione é più vulnerabile di quelle del passato in relazioni a punti di arresto. E questo é un nuovo problema che viene dal futuro.
Si combina con un altro problema che viene dal passato. L'architettura politica del mercato internazionale formatasi nel periodo della semiglobalizzazione, dal 1950 al 1989, non é certo in grado di stabilizzare i nuovi fenomeni. E aumentano i rischi di instabilità. Quindi il processo di globalizzazione potrebbe essere interrotto dal fatto che i problemi che esso produce non trovano nessuno che li risova o qualcuno che non ha più il potere di farlo.
In sintesi, il nuovo mondo della globalizzazione emerge con i suoi nuovi problemi prorio nel momento in cui il vecchio mondo della semiglobalizzazione, basato sulla "pax Americana, entra in crisi. Che, quindi, é doppia. In questo capitolo ne verranno esaminati alcuni aspetti principali e tratteggiate soluzioni di prospettiva da prendersi come appunto per futuri programmi di ricerca.
3.1. La crescente instabilità globale: aspetti geopolitici e geoeconomici
3.1.1. L'asimmetria sul piano dei costi della democrazia
Ci sono serie preoccupazioni al riguardo della sostenibilità della democrazia come evoluta negli ambienti della civiltà occidentale. Nella sue prime fasi di sviluppo (selezione per costi e per efficienza, viste sopra), il mercato globale tende a rendere svantaggiosi per un territorio i pesi fiscali e protezionistici. Sono difesi dal voto di chi é interessato a mantenerli. Quindi il libero gioco democratico, in quanto limite oggettivo a scelte competitive, é un fattore di rischio sul piano dei costi se un territorio é in concorrenza diretta con altri dove questa fonte di costo non esiste, per esempio i territori asiatici.
Ed é un problema grave. La risposta più normale sarebbe quella di cambiare modello industriale nei paesi evoluti, abbandonando le produzioni "labour intensive" più sensibili ai costi del lavoro e, in generale, delle protezioni, per passare a settori industriali più avanzati e quindi in grado di ridurre l'incidenza del costo del lavoro. Ma proprio il permanere di alte tasse per finanziare garanzie redistributive, nonché delle delle rigidità protezionistiche, non attrae i capitali di investimento per la "reindustrializzazione", anche se ciò accade più in Europa che negli Stati Uniti. Inoltre, come visto sopra, all'aumentare della pressione concorrenziale aumenta anche l'ansietà sociale di perdere le posizioni garantite. E ciò orienta il consenso contro le riforme competitive dei territori sviluppati. Per questo i capitali preferiscono andare in luoghi dove la remunerazione é assicurata proprio dall'assenza del costo della democrazia. Le possibili crisi di instabilità nel mondo emergente potranno certamente limitare questo fenomeno premiando la maggiore stabilità delle democrazie di tipo occidentale E ciò educherà i Paesi emergenti a capire il valore della democrazia in relazione al mercato.Ma aspettarsi un auto-educazione spontanea appare cosa illusoria. Inoltre è probabile che per almeno il primo decennio del 2000 la tendenza selettiva per costi della democrazia continuerà. E questo fatto comporta un crescente conflitto tra due coppie di opzioni contrastanti: democrazia verso competitività; mercato protetto verso mercato aperto.Nei paesi maturi la politica è sempre più alle prese con questo dilemma.
E si sta notando, nei paesi occidentali, che più aumenta la pressione dei requisiti di salute e competitività economica di uno Stato, più é forte l'esigenza oggettiva di ridurre la spugnosità delle mediazioni ed i tempi delle decisioni.Un esempio di questa tendenza oggettiva é il progressivo ampliamento dei poteri dell'"esecutivo" nei confronti del "legislativo" in molti Stati. Ed é ovvio che ciò avvenga in un mondo dove la competitività economica é sempre più di importanza preponderante. Un governo (nazionale o locale) che deve compiere scelte "competitive" veloci, sempre più tecnicamente determinate e politicamente flessibili, certamente soffre gli eccessi di parlamentarismo/partitismo (lentezza, conflitto, rielaborazione politica di requisiti tecnici, ecc.). E se le "cose della politica" prevalgono sulla "politica delle cose" é certo che le misure di governo a sostegno della competitività saranno meno efficaci, o per nulla. Questo quadro é complicato dal problema tipico della politica di essere esposta al requisito di mediazione tra gruppi di interesse. E' molto difficile che un sistema territoriale possa muoversi con flessibilità tra le opportunità e gli obblighi del nuovo mercato iperconcorrenziale gravato dai costi e pesi del "consociativismo" o dei sistemi di concertazione. Sicuramente l'emergere della nuova competitività tra territori per attrarre più capitale concorrenzialmente é un fenomeno che rende del tutto inefficiente il consociativismo come "regola standard" della politica. La conduzione "esecutiva" di un territorio dovrà per forza farsi più "selettiva". Ma siccome la selettività della politica ha un un limite intrinseco in sistemi democratici, particolarmente di ambiente europeo continentale, é chiaro che dovranno essere trovate nuove procedure di "creazione del consenso" per operazioni competitive ad hoc. Ma, appunto, non si vede come ciò possa essere conciliato con il rispetto delle regole democratiche evolute nei sistemi di tipo occidentale.
Nella maggior parte dell'Asia l'assenza di democrazia é stata teorizzata come fattore diretto di competitività. Ciò é stato fatto esplicitamente, per esempio, dal presidente della "Città Stato" di Singapore. La sostanza del nuovo contratto sociale implica uno scambio tra benessere generalizzato per tutti in cambio della cessione dei diritti democratici (Singapore offre agli investitori stranieri garanzie assolute di ordine e libera fluidità dei circuiti di capitale). E, poiché in effetti Singapore risulta aver incrementato la propria ricchezza diffusa, il contratto sociale "post-democratico" risulta, al momento, stabile. Lo stesso può dirsi per la Malesia. Ma il caso più vistoso - e importante per scala - é quello della Cina. E se quasi 1/4 del mercato mondiale é in grado di operare con un livello di competitività basato sull'assenza di democrazia, allora una tale massa critica é e sarà in grado di mettere in crisi i territori dove invece la democrazia c'é e costa. Va detto che l'assenza di democrazia é probabilmente un modello che può dare vantaggi subito, ma svantaggi enormi di instabilità dopo. Tuttavia è difficile trovare un modo non-conflittuale di convincere i Paesi emergenti ad aprirsi progressivamente alle regole democratiche. Questi hanno, infatti, consistenti ragioni tecniche per sostenere che la democrazia, in questa fase di sviluppo, ne danneggerebbe i potenziali di crescita economica. Inoltre la classe dirigente cinese é convinta che se rende lasco il controllo gerarchico del territorio esso in poco tempo potrebbe frammentarsi (sono già vistosi i sintomi del neo-autonomismo delle province) e, soprattutto, essere fonte di disordini sociali che riporterebbero il paese nel sottosviluppo. In sintesi, é improbabile che le classi dirigenti cinesi - e molte dei Paesi asiatici - scambino un pò meno di ricchezza adesso per avere più stabilità sociale nel futuro attraverso la democrazia (che é un fattore oggettivo di stabilità perché da ordine ai conflittii dovuti squilibrio sociale). Questi, presi dal ritmo attuale di crescita effervescente, é improbabile che ascoltino argomentazioni più prudenti e basate su scenari di lungo periodo. E' anche improbabile che il mondo del capitale le faccia perché sta guadagnando troppo da questo tipo di presente e prossimo futuro, nonostante le prevedibili crisi cicliche, per valutare le remuneratività date dalla stabilità di lungo termine. Certamente i Paesi asiatici saranno sottoposti ad una pressione per darsi regole ed istituzioni finanziarie più efficienti e certe, in particolare dopo la crisi bancaria del 1997 nelle tigri asiatiche ed in Giappone, ma ciò non comporterà una soluzione del problema del differenziale dei costi della democrazia.
In questo scenario le democrazie occidentali hanno cinque scelte:
(a) aprono un conflitto politico-strategico con i paesi asiatici emergenti affinché questi comincino la strada verso la democrazia e quindi riducano subito la loro competitività economica sul piano dei bassi costi sociali;
b) per non trovarsi nel dilemma tra democrazia e competitività sistemica devono reindustrializzarsi puntando ai settori con più alto valore aggiunto;
(c) alzano barriere commerciali per compensare politicamente i differenziali di costo territoriale;
(d) danno vita ad un mercato unico comprendente tutte le nazioni omogenee per sistema democratico e relativi costi e, grazie a questa massa geo-strategica- impongono nuove regole al mercato globale a loro vantaggio (che é una variante sofisticata dell'opzione "a").
(e) danno vita a blocchi continentali di entità tale da formare un mercato interno con regole più adatte agli interessi a specifici grappoli di paesi a sviluppo maturo;
(f) attuano una politica doppia: protezionista e dirigista all'interno per mantenere il modello di Stato sociale garantista, ma lo finanziano dotandosi di regole anomale che favoriscono l'attrazione del capitale.
Questa lista serve solo a segnalare la complessità a cui si trova di fronte la "politica" nei paesi ad alto sviluppo economico e civile nello scenario a medio-lungo termine (cioè tra oggi ed il 2020 circa).
Quali soluzioni sono in atto? L'ultima può essere oggettivamente praticata solo da piccole nazioni svincolate da accordi internazionali che limitano gli statuti speciali di competitività (Svizzera e Norvegia sono probabilmente gli unici paesi europei che sono in grado, volendo, di attuare questa opzione, solo parzialmente il Regno Unito e solo per un tempo limitato l'Irlanda).
Gli Stati Uniti stanno usando come leva strategica, per i loro interessi, tutte le opzioni - inclusa l'ultima applicata in singoli territori sub-nazionali - avendo realizzato una buona condizione sulla seconda (la reindustrializzazione). Ed infatti al momento, grazie appunto alla capacità di avere successo nell'opzione (b), riescono a mantenere una buona combinazione tra mantenimento della democrazia e competitività. Ma la complessità del problema globale lascia intendere che gli Stati Uniti non riusciranno più da soli ad essere i regolatori planetari anche a favore degli altri.
Gli europei stanno sopravvivendo residualmente solo grazie all'opzione (c) combinata con quella (e), ovvero alla permanenza di un forte protezionismo nei confronti dell'esterno. Ma esso non potrà essere mantenuto, anche perché gli Stati Uniti non saranno più cooperativi su questo punto (come lo furono nel passato, ai tempi della guerra fredda) pur aumentando la collaborazione con gli europei (Germania, in particolare) sia sul piano militare che su quello delle politiche monetarie. E l'agenda di sviluppo dell'Unione Europea, per lo meno quella del 1997 ed inizio 98, non riesce ancora a mostrare alcun segno che permetta di capire quale architettura politica potrà regolare l'ordine mondiale, sia nel breve/medio periodo - con i problemi di asimmetria competitiva tra paesi emergenti e sviluppati - sia nel periodo medio-lungo. Inoltre lo scenario é complicato dal fatto che gli Stati Uniti rispondono ad un eventuale formazione del blocco europeo eventualmente antagonista sia creando un mercato pan-americano da loro dominato sia influenzando il bacino del Pacifico.
Ma il punto che si vuole fare in questa sezione é che Stati Uniti ed europei continentali hanno interessi sempre più divergenti. Il che lascia presupporre che ben difficilmente potrà esservi una strategia comune euro-americana per il ribilanciamento della competizione con i territori a più basso costo democratico. E mancando questa mancherà anche la possibilità di ottenere una pressione comune verso gli asiatici tale da ribilanciare la competitività per costi democratici tra Occidente ed Oriente. Quindi lo scenario si muove verso una tripartizione del mondo: (a) un blocco cinese che ha il vantaggio competitivo del basso costo della democrazia che compensa il ritardo di modernizzazione economica; (b) uno nordamericano che ha un costo medio-alto della democrazia, ma capace di compensarlo con un'altissima efficienza economica e tecnologica; (c) uno europeo che ha altissimi costi sociali combinati con mediocrità tecnologica e bassia efficienza economica.
Questa tripartizione segnata da grandi differenze oggettive tra i tre blocchi renderà molto difficile la creazione di una tendenza armonica e più probabile il conflitto. Inoltre - questo il punto della sezione- sarà difficile avere una convergenza mondiale progressiva dei costi democratici. E questo porterà ad instabilità interne, principalmente, in Asia ed in Europa, i sistemi più sbilanciati o in un senso o nell'altro.
3.1.2. La ricombinazione geopolitica del "post-post-Guerra fredda"
La denominazione dell'epoca storica in cui stiamo vivendo é indicativa dello stato del sistema internazionale. Non si trova un nome che indichi qualcosa di nuovo, ma la si indica ancora con riferimento al passato. Il termine "post-Guerra fredda", in voga nei primi anni 90, rappresentava la transizione da un passato noto ad uno nuovo che non era ancora possibile delineare. Il fraseggio "post-post-Guerra fredda" che caratterizza la specificazione del periodo storico in corso alla fine degli anni 90 mostra come la transizione sia ancora in atto senza che si veda un orizzonte di formazione di un nuovo sistema internazionale. Molti osservatori sottolineano che alla fine di un ordine non corrisponde l'emergere di uno nuovo. Infatti, il sistema é caratterizzato da un indebolimento del fattore ordinativo precedente (l'Alleanza Occidentale) nello stesso momento che aumentano suia la scala geo-economica sia i problemi geopolitici del pianeta. Vediamo con una rapida sintesi - che non vuole avere alcuna pretesa di scenarizzazione puntuale né tantomeno completa- la portata di questi.
3.1.2.1. Il "decoupling" tra Stati Uniti ed Europa ed il suo significato prospettico
La formazione dell'Unione Europea si è sempre più caricata di contenuti antagonisti nei confronti degli Stati Uniti e questi, simmetricamente, aumentano le situazioni di contenzioso con gli europei. Ciò indebolisce la forza del tradizionale sistema di regolazione mondiale, frammentandolo.
Per altro il "decoupling" tra le due sponde dell'Atlantico è ancora limitato dal fattore militare. Gli europei devono ancora per molto tempo importare sicurezza dagli Stati Uniti non essendo dotati della forza (nè della coesione necessaria) per attuare una politica estera autonoma. Un'Unione senza supporto americano sarebbe vulnerabile alle instabilità ancora possibili in Russia, a quelle in corso nei Balcani ed a quelle sempre possibili nel Mediterraneo. Inoltre, senza potenza militare, sarebbe impossibile per gli europei difendere un prezzo favorevole del petrolio. E non avendo l'indipendenza energetica questo é un punto fondamentale che richiede la permanenza della NATO e relativo primato politico di Washington.
Alla fine degli anni 90 lo scenario bilaterale euro-americano é in bilico tra due alternative: divergenza e integrazione. Sul piano geo-economico aumentano le probabilità della prima, su quello geopolitico resta un buon livello di coesione, pur sempre più eroso dalla diversità di interessi economico-strategici. Pur non essendoci ancora elementi per poter fare una proiezione, la sensazione é quella di un peggioramento progressivo delle possibilità cooperative tra i due.
I fattori principìali che dividono le due aree dell'Occidente sono tre:
I sintomi della tendenza crescente al "decoupling" sono molti da ambedue le parti. La Germania, potere singolo europeo solo minimamente contrastabile dalla Francia, sta muovendo i primi passi per una strategia geoconomica che le permetta di ridurre la dipendenza dagli americani. Il miglioramento dei rapporti con Mosca é utile al realizzarsi del primo obiettivo di Bonn-Berlino che riguarda l'allargamento della sua sfera di influenza nell'est europeo. Ma il linguaggio dei circoli strategici tedeschi sta avventurandosi più in là, esplorando le possibilità future di un asse euroasiatico con la Russia di scala tale da assicurare alla Germania sia un rifornimento di energia che non dipenda più dagli americani sia una massa critica per poter giocare un ruolo mondiale.
3.1.2.2. L'emergere dei giganti asiatici
Alla crescita economica della Cina corrisponderà l'acquisizione di un potere militare corrispondente. Il Pentagono (Office for the Net Assessment) ha stimato (nel 1995) che tra il 2015 ed il 2020 la Cina sarà in grado di competere tecnologicamente e militarmente con gli Stati Uniti.
Si affaccia la prospettiva di un nuovo bipolarismo cino-americano. Quanto é probabile che si replichi una situazione di Guerra fredda? Con i dati visibili nel 1997 la probabilità di confronto forte e diretto non appare molto alta. La Cina, diversamente dalla Russia sovietica, non appare avere interessi espansivi che superino l'area che ritiene di propria influenza. Certo é che entro l'area definita di proprio interesse la Cina perseguirà anche con pressioni militari l'obiettivo di dominio. Per esempio, é probabile che Taiwan sarà sottoposta a tensioni progressivamente più pesanti. Ma la strategia cinese si basa sul lungo periodo e questo lascia spazio a soluzioni negoziali tali da evitare i conflitti.
Il problema maggiore appare il fatto che la potenza statunitense troverà una controparte di pari forza, se non maggiore, con cui dovrà negoziare gli interventi di regolazione planetaria. Lo scenario più probabile, pertanto, non é tanto di conflitto quanto di cooperazione in termini di divisione, pur competitiva, delle sfere di influenza. Ciò comporta un rischio di instabilità indiretta in quanto gli interessi dei due non necessariamente convergeranno nella definizione delle azioni di polizia internazionale e ordine mondiale. Questo vuol dire che la fonte di ordinamento complessivo tenderà ad essere più debole di quella sperimentata nel periodo della Guerra fredda. L'accordo di Yalta aveva diviso il mondo in due sfere abbastanza nette. In ciascuna delle due le superpotenze avevano il diritto riconusciuto di mettere ordine a loro piacimento. Difficilmente tra Cina e Stati Uniti ci sarà una nuova Yalta. E' più probabile che vi sia un negoziato continuo sugli affari mondiali complessivi, cosa intrinsecamnte foriera di instabilità.
Ovviamente queste considerazioni non tengono in conto possibili rivolgimenti politici in Cina od il caso della sua frammentazione, cosa predetta da molti che considerano la crescita economica accelerata del sistema una fonte di quasi certa instabilità. Ma lo scenario interno cinese appare più stabile che instabile, almeno fino al 2005. Il partito comunista cinese ha imposto un contratto sociale del tipo ricchezza in cambio di niente democrazia. Può reggere fino a che la ricchezza riesce a crescere ed a diffondersi senza disuguaglianze macroscopiche. Inoltre il controllo interno é ferreo. Fino a che sarà possibile reclutare i militari dalle zone povere della Cina interna, il regime avrà sempre a disposizione soldati che non esitano a sparare sulle masse urbane che chiedono diritti ignoti nella cultura rurale. Certamente la stabilità interna della Cina, in una prospettiva di lungo periodo, é un punto di domanda. Ma non vi sono segnali di possibili instabilità nel prossimo futuro.
Questa sensazione é anche confermata dagli atteggiamenti che il governo cinese sta tenendo. Gestisce Honk Kong con criteri tali da mostrare di essere un potere affidabile e quindi credibile per il mercato. Orienta le riforme economiche e finanziarie del paese in direzione di una stabilità crescente. Quindi l'interesse cinese appare essere quello di risultare un potere mondiale maturo riconosciuto come tale. Tale scenario, per confermare l'indirizzo qui detto, deve aspettare tuttavia ancora qualche anno. Le élite cinesi sono ancora abituate a privilegiare il sistema interno e non hanno l'abitudine di pensare ed operare come attori mondiali. Questo vuol dire che la relativa tranquillità prevista per l'emersione del gigante cinese potrebbe essere solo basato su un ritardo di adattamento al nuovo ruolo potenziale. Appunto, bisogna aspettare qualche annoi per capire le direzioni del risveglio cinese.
Comunque, nel presente, la fonte di instabilità relativa alla Cina riguarda l'impatto indiretto della sua massa nei confronti del regolatore unico dell'attuale ordine mondiale, cioè gli Stati Uniti, che sarà costretto sempre più a fare i conti con la potenza cinese emergente.
L'emergere dell'altro gigante asiatico, l'India, pone più problemi di sicurezza nel futuro ravvicinato. La stabilità interna é messa costantemente a rischio dal confronto tra gruppi etnici e religiosi diversi. Inoltre l'India appare più aggressiva della Cina sul piano della politica estera. L'aumento dell'importanza dell'India sia come mercato sia come soggeto geopolitico crea un problema nel senso che esporterà di più verso l'esterno la sua instabilità interna.
3.1.2.3. Lo scenario dell'America latina e centrale
L'evoluzione economica dei paesi dell'America del Sud é significativa, ma non tale da prospettare novità geopolitiche e geoconomiche come quelle che stanno emergendo in Asia. Argentina e Cile stanno cominciando a stabilizzarsi esibendo potenziali futuri di grande crescita economica in un ambiente politico sufficientemente stabile. Il Brasile ha i potenziali di ricchezza maggiori, ma la sua evoluzione istituzionale é lenta, compromettendo la velocità di sviluppo dei primi. I paesi minori dell'area sono per lo più intrappolati dal sottosviluppo causato dal disordine poltico ed istituzionale endemico.
Il problema di instabilità non riguarda tanto aspetti di sicurezza di impatto globale, quando il ritardo dell'evoluzione istituzionale in relazione allo sviluppo del mercato, in particolare al riguardo della stabilità finanziaria. Il Messico é stato stabilizzato dall'intervento diretto degli Stati Uniti. Ma la proiezione a sud del Nafta e della capacità ordinatrice degli Stati Uniti potrebbe essere contrastata sia dal disordine di base sia dall'emergere di un Mercosur orientato a resistere all'influenza statunitense ed a metterla in concorrenza con gli interessi europei. L'area potrebbe, infatti, diventare una zona di scontro geoconomico importante tra il blocco europeo e quello statunitense. E questo problema di possibile instabilità geopolitica e geoeconomùica va riportato a quanto detto in una sezione precedente al riguardo del "decoupling" tra le due sponde dell'Atlantico.
3.1.2.4. Russia, la madre di molte instabilità
E' certamente il gigante più esposto a rischi di instabilità e, direttamente o indirettamente, la fonte principale di possibili crisi di portata mondiale. Fino al 1996 sembrava che la politica russa fosse più orientata a rimettere a posto l'interno disastrato del paese che non a occuparsi di questioni esterne. Ma nel corso del 1997 é riemersa la vocazione a giocare ruoli globali.
La maggiore risorsa russa per giocare un nuovo ruolo globale é il petrolio. Può fornirrne di più agli europei monetizzando la facoltà di controllarne i rubinetti. Ma per poter fare qusto gioco Mosca deve recuperare i territori dell'ex-impero troppo frettolosamente ceduti alla sovranità locale. E questi territori, più quelli ancora sottoposti al dominio russo, sanno benisssimo quale sia il loro valore. Ciò spiega la guerra in Cecenia (dove l'Armata Rossa ha dato una prova pessima di efficicinza militare) e la pressione contro la repubblica della Georgia. In generale, Mosca deve riprendere il controllo militare dei territori ricchi di pozzi e necessari per il transito degli oleodotti e gasodotti. E questa é una fonte di instabilità locale che rischia di globalizzarsi prorio perché il petrolio ed il supo prezzo sono un fattore di rilevanza mondiale.
Un'altra complicazione é che la guerra per il dominio del petrolio tocca l'area di frizione con le popolazioni musulmane. E questo rischia di far riverberare lo specifico focolaio di crisi centro-asiatico con quello dello scacchiere islamico. Tale collegamento, poi, é ulteriormente complicato dal fatto che l'interesse russo é quello di unire la sua capacità di controllo del petrolio residente con quello posseduto dagli arabi. Ciò porta ad una traiettoria diretta di scontro con gli Stati Uniti. E la si vede nel caso, montante agli inizi del 1998, dell'appoggio russo all'Irak. La pressione di Mosca trova orecchie attente in Europa - come detto sopra- in quanto la garanzia di rifornimenti energetici da una Russia alleata ridurrebbe la dipendenza degli europei dagli Stati Uniti e lascerebbe più liberi i primi di poter giocare un proprio ruolo concorrenziale, in altri settori, contro gli interessi degli Stati Uniti stessi.
Comunque tutta l'Asia centrale ex-sovietica è una fonte potenziale di crisi in quanto aree dotate di grandi risorse e geopoliticamente rilevanti sono ora una zona grigia. Ed i vuoti geopolitici e geoconomici di solito si riempiono velocemente.
Il problema, senza poter fare previsioni anche minimamente difendibili, pare essere il ricostruirsi o meno di una capacità politica "forte" da parte della Russia e di unalleanza con chi. Un primo scenario vedrebbe il vantaggio di una ricostruzione dell'impero russo e quindi della ristabilizzazione di un certo ordine in un'area critica. Ma se questo avvenisse con intenti di nuova sfida agli Stati Uniti, il maggiore ordine nell'Asia centrale e nella Russia interna sarebbe ottenuto al prezzo di più disordine altrove. La ripresa di capacità ordinatrice della Russia, invece, sarebbe un fattore positivo di stabilizzazione mondiale se fosse accompagnato da un accordo di fondo tra europei, americani e russi stessi. Si formerebbe un notevole potenziale di ordinamento globale. Ma questa opzione non appare ravvicinata nel tempo e sembra ostacolata sia dalla natura antagonistica della formazione dell'Unione Europea nonché dalla ripresa dell'orgoglio russo, anch'esso in chiave anti-americana (la maggioranza della Duma, nel 1997, ha queste caratteristiche e pone delle tensioni alla poltica di cooperazione con gli Stati Uniti adottata da Yeltsin nel recente passato). Quindi lo scenario più probabile é il perdurare dei potenziali di instabilità pur senza crisi globalmente rilevanti allorizzonte.
3.1.2.5. La chiusura dell'Islam
L'area islamica può essere vista complessivamente come un blocco che si oppone di fatto alla modernizzazione (soprattutto politica) utile per conquistare nuove aree all'espansione del mercato nonché alla costruzione di una maggiore sicurezza complessiva.
La forza dell'elemento religioso è una barriera culturale e politica formidabile alle evoluzione delle architetture politiche necessarie al capitalismo efficiente. Tutti gli altri luoghi del pianeta, a parte alcune aree dell'Africa sub-sahariana, hanno culture o predisposte o comunque compatibili con l'espansione dello stile di vita del capitalismo e relativa centralità della cultura materiale. Certamente nei paesi a capitalismo maturo é già visibile una reazione storica in favore di un neo-spiritualismo anticapitalista.Si può anche dire, particolarmente per l'Europa, che la presenza diffusa di una cultura socialista non corretta dal pragmatismo, é una sorta di ostacolo culturale all'espansione del mercato ed alla sua efficienza crescente. Tuttavia queste varianti dell'anticapitalismo sono rielaborabili come varianti del capitalmismo stesso, mentre il codice islamico no.
Questo non vuol dire che sia da escludere una secolarizzazione complessiva della cultura islamica (si pensi al caso della Turchia). Non vuol nemmeno dire, sul piano micro-economico, che sia impossibile trovare compatibilità tra codice religioso islamico ed i sistemi tecnici del capitalismo avanzato. Per esempio, la regola islamica impedisce il profitto per interesse. Ciò crea problemi per le operazioni bancarie. Ma é sufficiente definire il guadagno per interesse aggirando la regola e si ottiene un "modo islamico" per fare le stesse cose che si possono fare nello stile standard. Ed infatti così avviene nel mondo finanziario reale dell'Islam. Questo, così sbrigativamente, solo per segnalare che il problema non sta in una presunta incompatibilità assoluta tra requisiti religiosi dell'Islam e quelli dei processi tecnici del capitalismo (e loro presupposti sociologici e morali).
Il problema é costituito dalla enorme arretratezza della cultura politica nella maggior parte dell'Islam. La riforma regressiva-conservatrice di qualche secolo fa ha congelato l'evoluzione storica. Se si perdona un parallelo improrio, ma illuminante, è come se il Giappone fosse ancora sotto l'influenza della politica Togukawa, cioè l'isolamento assoluto, senza aver subito la riforma Meiji (contatto con il mondo ed imitazione competitiva dell'Occidente tecnologico). Il Giappone ebbe il proprio "illuminismo" un secolo dopo l'Europa e gli Stati Uniti (che nacquero come prima nazione basata sui valori dell'Ilmuinismo stesso). Ma L'Islam é in ritardo di tre secoli nei confronti della riforma della modernità e appare lontano dal poterne averne una (Turchia a parte, che con la rivoluzione di Ataturk negl anni 20 si é data basi moderne). Questo significa che centinaia di milioni di islamici in una vasta area geografica operano con un codice culturale ed entro sistemi politici che resistono alla modernità. Questa considerazione va differenziata. In Indonesia e Malaysia la forte presenza musulmana é temperata sia dalla base culturale asiatica e, concretamente, dal dominio degli affari - e suo influsso politico- da parte delle comunità cinesi. Paesi come il Marocco, la Tunisia e l'Egitto hanno già percorso molti passi verso la modernità e, se non fossero inseriti in situazioni geopolitiche e geo-economiche sfavorevoli, sarebbero già ora dei protagonisti di un nuovo sviluppo (ed in parte lo sono). Altri paesi, come l'Irak, la Libia, il Sudan hanno direzioni politiche di tipo fondamentalista o irrazionale. L'Iran é guidato da una teocrazia. Il Pakistan è reso instabile da un infinito conflitto politico a livello delle sue élite. L'Afghanistan - inizialmente destabilizzato da interessi esterni sul suo territorio - é da anni dilaniato da una guerra aperta tra fazioni islamiche. L'Algeria é insanguinata sia dalla guerriglia dei fondamentalisti islamici sia dagli interessi che strumentalmente li usano.
In questo scacchiere, certamente, sono rilevanti fattori diversi da quello religioso-culturale. Il sottosviluppo, le condizioni ecologiche sfavorevoli, le pressioni internazionali per il controllo del petrolio, ecc. Resta tuttavia evidente che la dominanza del codice islamico é un fattore di ulteriore instbilità intrinseca che si aggiunge alle condizioni sfavorevoli di fondo. La cultura islamica, come sopra accennato, si trova ancora imprigionata nella svolta regressiva di qualche secolo fa che l'ha resa chiusa all'esterno ed al cambiamento. La base sociale istruita da questa cultura-religione tende a favorire offerte politiche arretrate e/o aggressive. In sintesi, una parte rilevante del futuro mercato globale si trova guidato da sistemi culturali-politici basati sulla "chiusura".
Il resto del pianeta é caratterizzato da diverse culture e stili politici che, tuttavia, presentano compatibilità con il codice culturale del capitalismo e della cultura materiale che ne é il substrato. Certo, l'assenza in Asia della tradizione di "Stato" come sviluppata nei sistemo occidentali - e la tradizione della comunità basata su regole non scritte - rende difficile in quell'area l'inserimento dei controlli normativi e delle regole che permettono la trasparenza delle relazioni di mercato. E ciò comporta un grave problema stabilità sul piano finanziario (emerso nel caso giappopnese e di tutti i paesi asiatici di nuova industrializzazione). Ma questo problema ha un carattere solo relativo in quanto non si configura come punto di arresto all'espansione del capitalismo. ne é solo un peculiare problema di regolazione. Nel caso della cultura islamica, invece, esiste un problema di incompatibilità assoluta. E questo é un primo punto.
Il secondo riguarda l'aggressività tipica di una cultura chiusa. E questa è ingigantità dalla frustrazione di sistemi sociali poveri che sentono la necessita di riscatto nel confronto perdente con quelli più ricchi. Per questo motivo l'area islamica é un continuo potenziale di conflitti o destabilizzazioni. Come si disinnesca la "bomba islamica"?
Come si sono disinnescate altre bombe politico-culturali: facendo penetrare la cultura dei sistemi aperti attraverso i loro messaggeri di cultura materiale. Il sistema sovietico, chiuso, é imploso sia per la proria inefficienza economica sia per il dissenso interno.Ma nel caso islamico la questione é più complicata. L'area, per lo più, é finanziata dal petrolio. Ciò significa che il sistema politico-culturale ha le risorse economiche per sopravvivere senza dover aprirsi. L'esempio saudita é illuminante. Quello iraniano dimostra la forza sociologica del codice religioso. Nella Persia dello Scià la classe sacerdotale, negli anni 70, é riuscita ad essere alternativa politica all'evidente disuguaglianza del sistema. In sintesi, la struttura dell'Islam é molto più solida di altri casi di regimi chiusi e cultura antimodernista. E il come aprirla, costruendo in essa gli anticorpi contro l'estremismo aggressivo ed il conservatorismo, sarà uno dei problemi più grossi del prossimo futuro.
3.1.2.6. I problemi di collocamento internazionale del Giappone
Il Giappone si trova a dover subire un effetto progressivo di stritolamento geopolitico. Le tigri asiatiche sono sempre più competitive sul piano delle tecnologie intermedie che costituiscono il grosso delle esportazioni giapponesi. Il capitale nipponico certamente trae vantaggi dallo sviluppo dell'enorme mercato cinese, ma ciò non comporta un posizionamento stabile del capitale nipponico. La barriera culturale tra Cina e Giappone é ancora fortissima ed insanabile. E questo conta. Inoltre i rapporti politici e culturali tra il Giappone ed il resto dell'area asiatica, pur buoni, non lasciano prevedere una futura integrazione "forte" degli interessi.Resterà sempre una base di sfiducia degli asiatici nei confronti dei giapponesi che porterà a tale conseguenza (geo)politica.
L'alleanza con gli Stati Uniti rimane solida sul piano della sicurezza, ma aumenta il contenzioso economico tra i due. Oltre alla tradizionale pressione americana per la riduzione del protezionismo giapponese si é aggiunta, nel corso del 1997, quella per il risanamento delle regole finanziarie del sistema nipponico. Il timore degli Stati Uniti é che una endemica crisi bancaria - e di crescita - del Giappone comporti la depressione dei valori dello yen ed un aumento della competitività delle merci denominate in questa valuta a scapito di quelle americane. Per altro il Giappone si trova a dover fare i conti con esportatori asiatici che sempre più operano con tecnologia simile ed a valuta più bassa (e la crisi finanziaria del 1997 ha aumentato questo problema). Va aggiunto che la bassa remunerazione dei capitali in yen ne ha stimolato la trasformazione in dollari ed impieghi sia borsistici sia di acquisto di titoli del debito statunitense. Questo rifornimento di capitale verso gli Stati Uniti giova all'economia statunitense. Ma se lo yen si abbassa troppo diventa remunerativo ricambiare i dollari in yen per monetizzare di più l'investimento. Ciò, in sintesi, significa avere dell'instabilità troppo marcata sia sul piano borsistico che del mercato dei titoli. E gli Stati Uniti vorrebbero più stabilità dello yen proprio per la loro dipendenza dal capitale giapponese. Ma questa stabilità implica una riforma profonda di tutto il sistema giapponese noto come "keiretsu", cioè l'intreccio tra banche, imprese, burocrazia e politica. E questa riforma, ovviamente, incontra difficoltà vista la diffusività degli interessi che non la vogliono.
In sintesi, ed in prospettiva, il Giappone:
Al momento il Giappone appare come un paese in via di ricollocamento senza che ci sia un luogo dove possa trovare una nuova posizione confortevole. Inoltre il suo modello interno è vistosamente in crisi. Pur non potendo prevedere la direzione e l'entità di eventuali instabilità causate da questa situazione è tuttavia certo che l'inquietudine del paese che è il più grande creditore netto del pianeta costituisce una diminuzione della probabilità di stabilità complessiva del mercato globale. Questo in generale.
Più in particolare, è molto probabile che il Giappone ed i soggetti economici giapponesi debbano comunque aumentare il loro attivismo competitivo dandogli modalità nuove. E queste riguardano una maggiore capacità di influire sul piano geopolitico. E' pertanto probabile che il Giappone prenderà un profilo di soggetto internazionale più forte di quanto abbia fatto nel dopoguerra. In termini di macroscenarizzazione ciò significa che un nuovo soggetto, con grande importanza economica, diventerà un attore primario per le questioni geopolitiche. La Siberia e l'area dell'Asia centrale potrebbero essere oggetti naturali di attenzione primaria. Non si vuole qui dare uno scenario previsivo che sarebbe impossibile formulare. Tuttavia si ritiene che la nuova vocazione geopolitica del Giappone, in una situazione di tensione (vista sopra) combinata con nuovi requisiti competitivi, porti nel gioco planetario un nuovo attore capace di scaricarvi le prorie tensioni interne. Il che comporta una ipotesi di maggiore instabilità, se non altro per la maggiore complicazione dei giochi possibili.
3.1.3. La contrazione del potere regolativo globale degli Stati Uniti
Nessuna delle possibili crisi di stabilità future avrebbe grande rilievo se fosse certa e costante la presenza di un forte regolatore con capacità globali. Ed è proprio la progressiva contrazione della capacità regolatrice degli Stati Uniti che risulta essere la principale fonte di instabilità nel presente prossimo e nel futuro.Alla fine degli anni 90 é evidente che gli Stati Uniti non ce la fanno più da soli a reggere il governo dell'ordine mondiale. Come sopra accennato, europei e giapponesi non cooperano, anzi divergono, con la complicazione che né i primi né i secondi hanno certamente la capacità economica e militare di sostituire Washington nel compito ordinativo planetario. Di fatto il mondo si ingrandisce per scala economica e problemi di sicurezza e l'unico regolatore si rimpicciolisce.
3.1.3.1. Sul piano geopolitico
Questo problema non é nuovo. Già alla fine degli anni 60 agli Stati Uniti era chiaro che non ce la facevano a reggere da soli la Pax Americana. Esportavano stabilità in tutto il pianeta, ma da esso importavano una quantità maggiore di instabilità e povertà. Per esempio, gli alleati europei e giapponesi venivano finanziati indirettamente permettendo un accesso asimmetrico al grande mercato interno americano: le merci degli alleati entravano liberamente in America, ma questa non chiedeva la condizione della reciprocità. E gli operai di Detroit e Pittsburg perdevano lavoro. Ma questo era il prezzo per controllare gli alleati ed altri Paesi, in particolare per tenerli coesi nel contenimento dell'Unione Sovietica, attraverso la regolazione dei loro accessi esportativi. Il costo dell'impero, poi, era altissimo sul piano monetario. Il dollaro - convertibile in oro- era la moneta mondiale. Ma per l'economia nazionale americana ciò divenne insostenibile. La guerra del Viet Nam, con i suoi 50mila morti, fu la goccia che fece traboccare il vaso. Nei primi anni 7O l'Amministrazione Nixon, cioé Kissinger, disse basta: adesso é ora di ridurre i costi e dividerli con gli alleati. Il dollaro si liberò dalla convertibilità con l'oro e conquistò la necessaria flessibilità. Kissinger cominciò a costruire quello che oggi é noto come G7 + 1 (la Russia) partendo, nel 1973, con la prima riunione G3 (Library Group) che avrebbe dovuto fondare il coordinamento delle politiche monetarie e strategiche globali tra Stati Uniti, Giappone e Germania. L'idea di Kissinger era quella di passare dal "single management" al "collective management" del pianeta, ovvero alla condivisione dei costi gestionali. Fino al 1991 (guerra per il prezzo del petrolio con l'Irak) la cosa funzionò con alti e bassi. Poi, senza più la pressione sovietica, l'Alleanza occidentale si ruppe di fatto, anche se non di forma, per la divergenza degli interessi geopolitici e geoeconomici. In sintesi all'aumentare dei compiti di regolazione mondiale sul piano monetario, delle regole economiche e della sicurezza, gli Stati Uniti si trovano nuovamente da soli e più piccoli. Sono ancora grandi abbastanza sia per risolvere la crisi balcanica sostituendo l'inefficienza europea sia per stabilizzare le crisi finanziarie mondiali come quella, passata, del Messico e quella del 1997-98 in Asia. Ma la fatica ed i costi aumentano. Per esempio, le lettere riservate di Rubin, ministro del tesoro statunitense, al governo giapponese nel corso del 1997 erano dei veri e propri ultimatum bellici per costringere Tokyo a mettere la casa in ordine ed evitare la catastrofe bancaria.
Questo scenario, pur non creando ancora enormi problemi sul piano geo-economico, induce crescentiu preoccupazioni sul piano della sicurezza globale. Non c'é dubbio che nei paesi emergenti, anche piccoli, sia in atto la proliferazione di armi di distruzione di massa. Così come non c'é dubbio che nuovi giganti, quali Cina e India, stiano assumendo capacità di potenza regionale, nucleare e ad alta tecnologia in generale. E questi Paesi non solo seguono sulla carta una dottrina che implica il ricorso alla forza per ottenere obiettivi politici, ma hanno, nella realtà, un numero enorme di contenziosi geopolitici nei loro dintorni. In sintesi, nel 1997 sembrano esserci tre problemi di sicurezza - di rilevanza globale- scalati nel tempo: (a) stabilizzare lo scenario medio-orientale; (b) dare una architettura stabile a quello centro-asiatico in ebollizione prossima; (c) contenere ed educare alla pace i giganti strategici futuri. Spalmato su questi compiti ordinativi c'è il problema costante di impedire agli "Stati banditi" di possedere capacità di distruzione di massa. E la cosa è complicata dal fatto che le culture politiche dei Paesi interessati non reagiscono ai codici di dissuasione e deterrenza occidentali. Mosca era prevedibile perché pensava come Washington. Bagdad, Pechino, Belgrado, Alma Ata, non lo sono. Ciò implica che la dissuasione deve basarsi di più sull'esercizio preventivo della forza. E a sua volta implica che l'Occidente debba essere più unito, spendere di più in nuove tecnologie di superiorità assoluta.
Ma l'Occidente non è unito e, anzi - come visto sopra- si sta dividendo in due blocchi, europeo ed americano con il Giappone in crisi di collocamento e con la Russia che vuole entrare nel gioco animata da una cultura di riscatto ed orgoglio più che da una matuirtà di stabilizzatore globale.
Certamente gli Stati Uniti hanno una capacità militare di regolare le crisi di sicurezza. Ma la mancanza del consenso internazionale impedisce sempre di più l'esercizio di questa attività. Inoltre, nel prossimo futuro, gli Stati Uniti stessi non avranno alcun incentivo a mantenere i costi di una capacità militare a raggio globale. Per esempio, il requisito di essere capaci di gestire contemporaneamente due guerre tipo Irak più mantenere qualche riserva per gestire un terzo incidente ha un costo che già la tendenza attuale del bilancio difesa degli Stati Uniti non copre più. Se, poi, si analizza più in dettalgio lo scenario, si nota che nelle crisi del centro-Asia il potenziale di interventoi miltiare americano é molto ridotto. Si tratta di un'area interna dove le portaerei non possono arrivare. La talassocrazia americana o trova paesi in loco che forniscano basi e truppe di supporto opppure non può arrischiarsi di mantenere sforzi impegnativi di regolazione in quell' area. Nella contrazione militare restano notevoli le risorse di superiorità aerea. Ma l'efficacia strategica di questa arma - pur enorme- non é sufficiente a sostituire il complesso militare che serve a regolare situazioni di crisi in modi stabili. In sintesi, gli Stati Uniti si stanno prendendo il "dividendo per la pace" dopo la fine della Guerra Fredda riducendo la spesa militare (e questo é uno dei fattori della crescita americana dal 1991 in poi). Ma ciò costituisce una diminuizione delle risorse per la sicurezza globale in quanto gli europei non stanno compensandola. Il loro dividendo della pace é, semplicemente, quello di non porsi il problema di regolazione globale.
Così affrontato, il problema é visto con gli occhi del passato. Si presume, cioé, che gli Stati Uniti possano essere i soli capaci di essere pilastro della sicurezza gloable. Chi scrive si rende conto di questo passatismo sul piano dell'osservatore. Ma, tuttavia, non si vede chi altro nel mondo possa creare una novità tale da non preoccuparsi della dimiminuzione del pìotere regolativo globale sul piano della sicurezza. molti stanno proponendo che il problema non é tanto quello di un "ordine mondiale", quanto quello di un "accordo mondiale". E costoro ritengono che la riduzione della capacità militare statunitense non sia fatto così problematico in quanto verrà sostituito da un più raffianto sistema di comprensioni reciproche: l'ordine multipolare basato su negoziati continui tra le nazioni al posto di una gruppo di esse che abbia capcità gerarchiche nei confronti di altre. Questo nuovo scenario é molto gradevole sul piano morale e politico. Ma non se ne vede il realismo alla luce dei comportamenti attuali degli Stati che dovrebbero formare la nuova armonia. Quindi il dato di sintesi resta che la contrazione del potere regolativo degli Stati Uniti é una sottrazione al potenziale di ordine del processo di costruzione di un'architettura politica del mercato globale.
3.1.3.2. Sul piano geoeconomico.
Il livello cooperativo tra le potenze occidentali é maggiore sul piano della regolazione monetaria del pianeta. In effetti la nascita dell'euro é il primo serio passo per ridurre l'impossibile carico regolativo planetario finora tenuto solo dal dollaro. Per questo motivo la Federal Reserve ha espresso sempre parole benauguranti al riguardo del tentativo europeo (nonostante la fragilità del disegno). Sarebbe una moneta globalizzabile che viene a soccorso di un dollaro esausto di essere il solo riferimento planetario.
Questa rilassatezza di fronte alla competizione euromonetaria da parte americana non deriva da particolari doti di generosità e trascendenza. Nei prossimi decenni é molto difficile che l'euro, comunque, diventi una moneta di riferimento capace di sostituire il dollaro. E' candidata ad esserne un numero due, di supporto oggettivo. Ma questa sensazione non é condivisa da tutti gli ambienti statunitensi. Per esempio, i funzionari del Dipartimento del Tesoro vivono la cosa, almeno nel 1997, come concorrenzialità diretta. Anche perché in molte parti d'Europa la nascita dell'euro viene annunciata come moneta a vocazione sostitutiva del dollaro.
La concorrenza dollaro-euro non é un fatto simbolico. Per esempio, tra le tante conseguenze di fondo, una potrebbe avere un impatto entro pochi anni generando fortissime tensioni geo-economiche. Se l'euro diventa moneta di riferimento, anche parziale, ciò significa che si riduce la quantità di dollari posseduti da soggetti non residenti negli Stati Uniti. Il fatto che il dollaro sia moneta-rifugio mondiale compensa, come noto, il deficit commerciale degli Stati Uniti che ha natura endemica. Senza questa compensazione, il deficit commerciale potrebbe diventare un fattore di grande instabilità. E se ciò avviene a causa del fatto che l'euro rimpiazzi il dollaro come moneta rigugio o di riferimento, gli Stati Uniti saranno costretti a controllare molto strettamente l'equilibrio dei loro conti commerciali. E' uno scenatio molto complicato. Ma un suo possibile esito è semplice: il dollaro sarebbe forzato verso il basso per dare più competitività esportativa alle merci statunitensi e, soprattutto, limitare il deficit di import. Ciò innescherebbe una sequenza di svalutazioni competitive globali con conseguenze difficili ad immaginarsi, ma certamente negative e, in particolare, capaci di creare un punto di blocco del processo di globalizzazione economica e relativo requisito di progressiva maggiore apertura dei paesi ai flussi commerciali. Quindi è più probabile che a Washington tentino una politiica del dollaro alto per mantenere leuro basso.
In sintesi, la nascita dell'euro come eventuale sostitutore, virtuale o reale, pur parziale del dollaro espone il sistema dell'economia mondiale a turbolenze per compensare le quali non ha ancora un meccanismo di regolazione. Comunque vada, prima o poi questo problema si renderà visibile e potrà essere trattato e gestito solo con una accordo strutturale tra euro, dollaro e yen (e ricaduta regolativa su altre monete).
Una domanda relativa ad uno scenario più ravvicinato nel tempo riguarda la capacità di cooperazione tra le due aree monetarie principali del pianeta (prima che la Cina diventi la terza e, poi, la prima assoluta) in merito alla regolazione delle instabilità finanziarie che possono verificarsi nel pianeta, tipo quella del Messico e della crisi bancaria che si teme possa scoppiare in Asia. Saranno per forza di cose pugno e tasca statunitensi a riempire di forza e capacità di intervento il guanto del Fondo monetario internazionale. Gli europei, complessivamente, pur mettendo a disposizione risorse, non potranno farlo in misura proporzionalmente soddisfacente. Appunto, l'interrogativo riguarda il fatto se l'area dell'euro diventerà o meno un partner degli Stati Uniti in questa materia regolativa, che é di fatto politica. Il permanere di un dubbio al riguardo, combinato con il fatto che l'emergere di nuovi giganti economici potrebbe comportare un crescente rischio di instabilità finanziarie, mostra che comunque gli Stati Uniti saranno troppo piccoli per gestire da soli, o perfino da primi tra pari, un mondo che si ingrandisce velocemente.
3.1.3.3. Lo svuotamento della multilateralità
Tutte le grandi organizzazioni internazionali - Onu, Fmi, Nato, G7, ecc. - hanno esibito un certo grado di funzionamento, sostanzialmente, perché gli Stati Uniti le hanno utilizzate come guanto per rivestire la loro mano. Con questo si vuol dire che l'apparenza di una gestione collettiva degli affari planetari era ed è in realtà basata sul ruolo principale degli Stati Uniti negli organismi di gestione collettiva. La domanda, ora, è come nel nuovo scenario del post-post-Guerra fredda questa centralità degli Stati Uniti possa mantenersi e, se no, cosa possa succedere al funzionamento di questi organismi.
In parte della letteratura circola la strana idea che queste organizzazioni internazionali abbiano una loro autonomia o che possano avere un valore politico indipendentementemente dai soggetti che li sostituiscono. In realtà si caratterizzano come luoghi dove il potere degli Stati Uniti viene limitato dagli altri, attraverso l'accettazione dei primi di farsi limitare. Questa cessione di "unilateralità" viene compensata dall'aumento di "consenso" per le operazioni di interesse degli Stati Uniti. Qualora la multilateralità perdesse questa capacità compensativa agli occhi americani, per gli Stati Uniti vi sarebbe un minor interesse ad utilizzare gli organismi internazionali come piattaforma per le iniziative di loro interesse nazionale. Ed un minor ricorso alla multilateralità comporterebbe il problema di un indebolimento degli organismi che, pur nominali, che sono evoluti come strutture di "governance" del pianeta, qui interessanti proprio come precursori della ricercata architettura politica del mercato globale.
La sequenza che potrebbe portare a realizzare il problema qui indicato é la seguente. Gli Stati Uniti hanno interesse ad impegnare di meno le loro risorse per scopi di regolazione globale. Fino a che c'era la competizione del potere sovietico, questi non potevano sottrararsi - comunque- a mettere sul tavolo la maggior parte delle risorse, in qualsiasi caso. Ma ridottasi la minaccia, gli Stati uniti hanno interesse a spendere meno risorse e ad applicarle più direttamente a beneficio dei loro interessi diretti. Quindi l'unilateralità travestita da multilateralità é sempre meno, per dire, finanziata. Ma gli altri partner, nei diversi organismi, hanno l'abitudine a partecipare all'onere del governo planetario con risorse minime. Quindi, se si trovano a dover spendere di più, é probabile che rifiutino oppure pretendano una vera autonomia, cioé una vera multilateralità. E nel caso l'interesse americano diverga da questi - come sempre più spesso avviene- gli Stati Uniti tenderanno ad agire in senso comunque unilaterale, svuotando la capacità delle organizzazioni internazionali. Questo serve a dire che il problema della contrazione della potenza unica statunitense non riguarda solo, o tanto, il mutamento nei rapporti di forza tra singoli stati, ma anche la sopravvivenza di tutte le organizzazioni internazionali che nel recente passato hanno costituito i mattoni preliminari di un sistema di governo mondiale. Alcune, come il G7, sono talmente nominali che questo problema non ne cambia né la natura né la missione. Organi di consultazione sono, la stessa cosa resteranno, comunque. Ben diverso, ed a rischio, può essere il destino di istituzioni più formalmente importanti come l'Onu ed il Fondo monetario.
Un aumento della conflittualità intra-occidentale, o solo un ampliamento della divergenza di interessi (geo)economici, metterebbe in crisi la WTO (World Trade Organization) destinata ad accrescere il suo ruolo di guardiano e regolatore della libertà del commercio internazionale. Non si può pensare che questa importantissima istituzione del mercato globale possa funzionare senza che sotto e sopra vi sia un accordo stabile tra le potenze economiche e politiche del pianeta. Il vedere che queste possibilità di accordo vanno diminuendo rende problematico lo scenario di prospettiva.
3.2. La ricerca dell'architettura politica del mercato globale
La letteratura corrente é densa di ipotesi di scenario. Chi ritiene inevitabile il formarsi di un mercato planetario fatto di blocchi continentali potenzialmente ostili tra loro, chi, al contrario, ritiene quasi implicita e naturale una globalizzazione progressiva, pacifica e cooperativa. Qui si ritiene che l'oggetto di studio sia aperto a troppe direzioni possibili per poterne individuare una, in dettaglio, che abbia maggiore probabilità. Inoltre, come visto sopra, il sistema mondiale sta entrando in una transizione tra un ordine che decade ed una altro di cui ancora non si vedono i contorni.
Nella situazione di aleatorietà sopra descritta, si preferisce qui istruire una scommessa strategica, o visione prospettica, piuttosto che interrogarsi all'infinito su quali possibili scenari possano realizzarsi. Dal linguaggio analitico, quindi, passiamo a quello prescrittivo-strategico ove si individua una soluzione di architettura che soddisfi una lista di requisiti fondamentali, come segue.
3.2.1. Tre requisiti
I termini di riferimento del disegno che si vuole impostare sono tre:
Argomentiamone brevemente il senso, nei suoi aspetti più di fondo.
3.2.1.1. La ricostruzione della forza ordinatrice.
Potrebbe essere pericolosa e densa di brutte sorprese l'idea che il futuro ordine mondiale possa basarsi su un continuo negoziato tra potenze di forza equivalente o quasi. Questa idea di nuovo ordine mondiale senza un ordinatore forte sta prendendo piede nella comunità intellettuale. Si presume che si sviluppi una sorta di intelligenza cooperativa tra le potenze e che ciò conduca ad un modello multilaterale di stabilità il quale, successivamente e progressivamernte, si trasformerà in un unico sistema di governo del villaggio globale. Il tutto si basa su una presunzione di volontà cooperativa tra nazioni e blocchi di esse. Il modo di pensare detto sopra è tipico delle comunità intellettuali che scambiano il progressismo con l'irrealismo e va preso con bonarietà. Il mondo reale é più crudo e va ordinato con altrettanta crudezza.
Questo contrasto di idee evoca la nota e secolare contrapposizione tra la teoria dell'ordine di Rousseau e quella di Hobbes. La prima assume la possibilità di costruzione di un ordine politico dal basso verso l'alto, assumendo l'azione costante di una tensione cooperativa naturale. La seconda assume l'esatto contrario e risolve il dilemma dell'ordine proponendo di ancorarlo ad una forza gerarchica. Sono più di tre secoli che la comunità dei ricercatori nelle scienze morali dibatte su questo punto. E la divisione riguarda le assunzioni di partenza: il mondo è fondamentalmente buono, per gli uni, cattivo per gli altri. In realtà il dilemma sarebbe più facilmente risolvibile andando a vedere i dati fattuali. Da essi si ricava che i soggetti politici basano le loro relazioni sull'interesse. Il che non vuol dire che non possano essere cooperativi. Ma lo sono solo entro schemi di bilanciamento della forza. Saltando qualche passaggio filosofico, la ricerca mette in luce che è più prudente pensare che un ordine mondiale possa essere retto solo da un soggetto dotato di forza tale da poter usare bastone e carota quando servono. L'impiego della seconda è cosa moralmente più gradevole, ma di difficile efficacia se non c'é l'ombra del primo. Il lettore perdoni questa banalizzazione di uno dei più grandi temi della filosofia politica. Ma, in sostanza, serve ad inserire un criterio solido e realista nella ricerca di quale debba essere una solida architettura politica del mercato globale: la prudenza.
Questa consiglia che le possibili instabilità di origine conflittuale possano essere minimizzate da un ordinatore internazionale forte capace di concentrare la potenza necessaria per ridurle. Su questa linea di ragionamento si tratta di ricostruire quell'effetto ordinatore prodotto dalla potenza unica statunitense fino ad oggi, ma che sta diventando più debole. E probabilmente il modo migliore per farlo è quello di organizzare una coalizione di nazioni con interessi potenzialmente comuni che diventi il soggetto collettivo di quell'ordine che gli Stati Uniti, da soli, non sono più in grado di fornire al pianeta.
Il primo requisito di architettura è quello di cercare un insieme di nazioni che costruiscano un'alleanza aforte in grado di ordinare il resto del mondo sulla base di un differenziale di potenza superiore ad esso. Più semplicemente, si tratta di sostituire in forma di alleanza quella forza ordinatrice che gli Stati Uniti da soli non riescono più ad avere. Apparentemente ciò suona molto conservatore. In realtà é approccio molto pratico.
3.2.1.2. Sistema che non ammette punti di arresto
Il criterio di prudenza detto sopra, oltre che delineare l'idea di un soggetto strategico forte, piuttosto che un metodo di ordinamento senza ordinatore, per minimazzare le instabilità mondiali, assume maggior consistenza se si condivide una preoccupazione realtiva ai cicli futuri dell'economia mondiale.
Andiamo su terreno sdrucciolevole perché non alimentato da dati di ricerca, ma solo da suggestioni. Comunque, la macchina del capitalismo mondializzato che si sta sviluppando sembra avere una fragilità maggiore di quelle che una volta erano le economie nazionali. Con questo si vuol dire che l'economia globale potrebbe risultare più vulnerabile alle crisi. Nel senso che, innescato un blocco recessivo alla crescita per una qualche ragione, poi potrebbe essere meno facile uscirne e riprendere la traiettoria ascendente. Se questo sospetto risultasse vero, allora vi odovrebbe essere maggiore attenzione ad evitare punti di blocco oppure ad intervenire con grande velocità per riparare la macchina inceppata.
Qual è il rischio? Che in un'economia globalizzata, gli eventuali cicli recessivi abbiano durate molto lunghe e quindi impatti sociali e tecnici di gran lunga più violenti di quelli a cui ci siamo abituati in un'economia frammentata tra nazioni, che da il vantaggio di differenziare i destini dell'uno o altro ambito, compensandoli complessivamente. E' difficile argomentare solidamente che all'aumento di scala del merrcato corrisponda il rischio di cicli recessivi più lunghi. Qualcuno, infatti, potrebbe controargomentare che il nuovo mercato di scala planetaria, al contrario, sarebbe capace di ridurre i tempi dei cicli recessivi avendo più varietà di situazioni possibili. Altri potrebbero estrapolare dal ciclo di crescita americano degli anni 90 l'idea che ormai la globalizzazione comporti una possibilità di crescita continua, senza inflazione (cioé il concetto di "new economy, così inteso). In realtà la connettività globale comporta una forte standardizzazione delle situazioni, cioé una perdita di varietà pur nell'aumento quantitativo dei soggetti economici attivi e delle loro connessioni. Fare un'economia mondo é come rasare montagne e valli. La pianura che ne consegue non alza ostacoli contro il vento e questo soffia dappertutto.
La difesa contro questo problema del "punto di arresto" non può essere la suddivisione del mercato globale in tanti mercati regionali regolati da relazioni di barriera. Ciò comporterebbe un punto di arresto di altra natura. Quindi il regolatore mondiale, oltre ad essere un soggetto forte per la sicurezza, deve anche avere la capacità di manutenzione della crescita complessiva intervenendo su tutti i possibili punti di arresto che continuamente possono verificarsi.
Per esempio, oltre alle guerre, cartellizzazioni finanziarie o monopoli sono tipiche fonti di punto d'arresto. Il regolatore dovrà impedirle lasciando fluire la libera concorrenza, difendendendola. La lista dei possibili inneschi é infinita. E non serve neanche tentarla perché impossibile, vista la sua natura evoluzionistica. Serve invece progettare un sistema regolatore fortissimo sia sul piano della sicurezza sia delle regole economiche. Ovviamente un ordinatore critico sarà costituito dalla funzione di autorità monetaria globale. Ma per farla esistere, nel futuro, ci vorrà appunto un precursore politico "forte".
Non ci sono motivi incontrovertibili che il rischio qui adombrato sia reale. Tuttavia gli indizi sono sufficienti per consigliare il ricorso al criterio di prudenza, nello stesso modo definito sopra. In particolare, la previsione che i più fanno sul fatto che nel futuro il potere finanziario - concentrato- sarà il vero ordinatore del pianeta lascia non tanto perpessi sulla sua probabilità (che in effetti pare alta al momento) quanto sulla desiderabilità di questo scenario. E non solo per motivi politico morali, ma anche in base al sospetto che un ordinatore mondiale basato su poteri finanziari che possono condizionare la politica non appare granché stabile e capace di prevenire e gestire eventuali crisi.
Un'immagine, pur spinta all'eccesso, può dare l'idea di cosa passa nella mente di chi scrive. Stiamo mettendo in corsa una macchina meravigliosa, ma pazza: un capitalismo che deve crescere sempre più velocemente per poter sopravvivere. Una sorta di infernale macchina autoreferenziale che risponde in questo modo all'indagine sulla sua natura ontologica: perché cresci? Per crescere di più. Potremmo disquisire per tante pagine sui paradossi di un sistema condannato a crescere per poter esistere. Ma qui ci interessa solo il realismo essenziale di tarare un'idea progettuale sul massimo rischio, allo scopo di evitarlo. E questo è generato dalla natura stessa del capitalismo emergente: deve crescere continuamente e se si ferma solo un attimo potrebbe non ripartire più. Il compito del regolatore globale é quello di evitare i punti di arresto.
Sono consapevole dei problemi che questa impostazione provoca. Per esempio, si assume che sia possibile una crescita infinita. Si imposta una visione che rischia di sovra-adattarsi ad un pensiero unico. E ciò potrebbe sembrare drammaticamnte fuori moda in un periodo in cui sta emergendo una sostenuta reazione spiritualista alla meccanica espansionista del turbocapitalismo. Tuttavia mi sembra razionale semplificare il punto nel modo seguente. Il capitalismo di massa, pur moralmente ambiguo, è il miglior sistema sociale che finora abbiamo conosciuto. Certamente per tenerlo in piedi bisogna farlo crescere continuamente. Ciò implica fare più mercato (quindi mondializzare l'economia e togliere tute le barriere) e poi spingere alla crescita continua il mercato globale resosi complessivo. Questa é la missione fino a che qualcuno non troverà un modello migliore di creazione ediffusione sociale della ricchezza. Poi si vedrà.
E si riesce a vedere qualcosa oltre questo futuribile? Con uno sforzo di immaginazione. L'economia capitalistica potrebbe cessare nel caso di una società che scopra tecnologie ed energia infinite, ovvero dove gli individui possano vivere solo desiderando ed ordinando. Può darsi che la biologia crei forme di vita con risolutori "built-in" dei problemi di scarsità. Come può essere che qualcosa del genere avvenga nella conquista dello spazio extraterrestre. Possiamo già fantasticare sui futuri remoti a partire da idee e possibilità che cominciano a sbozzolarsi nel presente. Ma qui la missione è quella di dare al pianeta un'architettura abbastanza ordinata per i prossimi due secoli, tempo in cui é difficile che novità fondamentali, pur segnalandosi, possano avere capacità realmente sostituitve del capitalismo di massa come miglior risolutore dei problemi di scarsità. E vivendo in questo tempo dobbiamo attenerci ad un futro probabile che, pur denso di novità inattese, conterrà ancora molte cose simili a quelle che vediamo oggi.
In sintesi, la missione é quella di evitare punti di arresto per una macchina economica mondiale che se li avesse potrebbe incepparsi del tutto e tracollare.
3.2.1.3. Continuità della civilità politica occidentale
Più delicata sul piano morale è la definizione del terzo requisito. L'emergere di nuovi soggetti planetari, quali la Cina e l'India, e la rinascita, pur più difficile, di un Russia senza tradizioni democratiche sostanziali (formali sì, di recente), comporta una sfida al primato della civilità occidentale. Si pone il problema se difendere o meno questo dominio, e se sì, come sia possibile farlo.
Questa alternativa potrebbe essere superata da un processo naturale di ibridazione basato sulla connettività crescente. Il risultato sarebbe un misto in cui istituti culturali occidentali si mescolerebbero con quelli orientali, progressivamente trovando una nuova armonia. Si potrebbe accettare? Vediamo.
In buona parte delle culture asiatiche l'individuo é concettualizzato come parte della natura, componente di un ciclo a lui superiore. In tutte non vi é stato l'illuminismo ed il suo portato in termini di formazione storica dello Stato democratico (e nazionale). Il Giappone si é occidentalizzato già a partire dalla seconda metà del 1800 (riforma Meji), ma é interessante notare come la costituzione e sistema di tipo occidentale si sia sovrapposto al più antico sistema di regole non scritte, le seconde effettivamente in vigore. In generale, tutto l'ambiente asiatico non ha quei cioncetti di democrazia e di civiltà sociale che caratterizzano l'occidente e ne definiscono correntemente il sistema politico. Cosa ibridiamo? Fino a che si tratta di cucina e standard di cultura materiale va bene. Ma se parliamo di regole democratiche o di ordine istituzionale la cosa va un po' più controllata. Con questo non si vuol dire che la civilità occidentale sia superiore a quella orientale. E' semplicemente diversa. E la differenza principale sta in due diversi concetti politici, il primo fortemente basato sul primato del sistema democratico Ma l'emergere economico della seconda potrebbe forzare la prima a rinunciare ad alcuni suoi pilastri fondamentali.
Come già detto con enfasi in precedenza il problema riguarda la democrazia. Un'Asia che culturalmente può farne o meno, o svilupparne una versione sbiadita, si pone in concorrenza per minori costi produttivi con un'Occidente che invece ha democrazie realmente costituite. Quindi, lasciando agli antropologi il trattamento degli aspetti più culturali, il problema é quello di evitare che si imponga per necessità concorrenziali un modello meno democratico come standard mondiale. Ciò significa portare la democrazia ed il suo portato di diritti civili in un'Asia che non ce l'ha, con l'eccezione, pur problematica, dell'India. E qui i dilemmi morali aumentano, così come l'imbarazzo ad evocare antichi fantasmi colonialisti. In realtà non ci sono. Più essenzialmente il problema é semplicissimo: quale cultura politica comanderà il mondo?
Questo aspetto del terzo requisito é il più imbarazzante a dirsi. Significa che la futura architettura mondiale deve essere costruita con una missione di occidentalizzazione dell'Asia. Per altro questa é già storicamente avvenuta. L'importazione in Cina dei temi marxisti, pur localmente variati, ha comportato l'acquisizione di concetti occidentali estranei a quella tradizione culturale. Lo stesso puù dirsi per l'India come per molti paesi islamici, il Giappone, ecc. Inoltre la "cultura materiale" che caratterizza il fondo antropologico dell'Occidente é compatibile con qualsiasi altra cultura in quanto si pone sopra di essa senza intaccarne i fondamenti. Ed infatti avremo una integrazione culturale mondiale sugli aspetti più superficiali del capitalismo, tra l'altro praticato anticamente in Cina, pur in forme mercantiliste, parecchie migliaia di anni prima che emergesse la civilità occidentale. Ma in realtà l'occidentalizzazione, qui, vuol dire estendere la democrazia e la cultura dei diritti individuali - e relativi costi - a sistemi che non ce l'hanno e che ne teorizzano la non necessità, come in Cina o Singapore.
Il dilemma cognitivo-morale si fa ancora più difficile da sciogliere se si pensa che la forma di democrazia emersa negli Stati nazionali dell'Occidente é solo un passo intermedio e non certo quello finale nel trasferimento della sovranità dalla comunità gerarchica (il re) all'individuo. La globalizzazione, il mercato mondo che diventa un mondo mercato, permette in prospettiva di rendere l'individuo sempre più libero. Se mobile e competente può progressivamente sostituire la tutela giuridico-politica con quella di essere fattualmente dotato di "portafoglio", cioé di potersi comprare le condizioni per la vita che gli aggrada. Tuttavia la maggiore libertà di fatto - il potere di acquisto- dovrà comunque essere tutelata da elementi di autorità regolativa (costituzioni, guardiani delel regole di equità e concorrenza, sistemi di diritto e polizia, ecc.). E ciò porta alla considerazione che comunque istituzioni forti saranno necessarie. E qui rientra il problema se saranno democratiche o autoritarie.
Ed il problema ha evidentemente un'enorme rilevanza economica. Anche assumendo che il mercato globale darà opportunità crescenti agli individui, ciò non vuol dire che diminuirà il fabbisogno di garanzie, sia sistemiche che personali. Anzi, é più probabile che un'economia sempre più sofisticata ponga crescenti carichi di formazione e tutela degli individui. In caso di loro assenza potrebbe diminuire la quantità di soggetti che partecipano positivamente al ciclo economico mondiale. E tale prospettiva si costituirebbe come premessa per un punto di blocco alla continua espansione del mercato e sua capacità di generare e far circolare ricchezza. Quindi, evocando sempre il criterio di prudenza, sembra ragionevole porsi in una prospettiva progettuale che faccia crescere la forza degli Stati democratici mano mano che evolverà in senso quantitativo e qualitativo il mercato globale. In tal senso viene giustificato il requisito di estendere il modello occidentale di democrazia liberale-sociale man mano che aumenterà la globalizzazione.
3.2.2. Il disegno: la nuova architettura per la Pax globale
L'idea progetuale é semplice. Un libero mercato tutelato da istituzioni politiche forti in senso democratico, regolamentativo degli abusi, e sociale. Si tratta di diffonderlo come modello planetario.
3.2.2.1. Le unità di base del modello: gli Stati nazionali.
Il problema di un mercato globale é quello di capire chi farà manutenzione locale delle regole che gli permettono di essere tale in tutto il pianeta. Linguaggi frettolosi prevedono la sparizione delle nazioni piallate dall'affermarsi da un unico standard planetario. Il problema, tuttavia, é chi farà manutenzione locale del sistema territoriale che é un pezzo del mercato globale stesso e che deve farne transitare i processi? Qual é l'unità di base del futuro ordine mondiale? La risposta é semplice: sono le nazioni, a partire dalla loro configurazione attuale.
L'idea di un unico governo mondiale, o perfino di blocchi regionali con un unico centro politico che sostituisca le sovranità nazionali, porta con se il vizio dell'instabilità intrinseca, almeno per un lungo periodo futuro. Questi modelli concentrati, infatti, allontano dal territorio la fonte di governo e costringono ciascun pezzo del mercato mondiale ad adattarsi ad uno standard troppo remoto dalla loro specificità. E questo fatto porterebbe alla tendenza di ricostruire quelle nazioni che si vorrebbe eliminare per rendere più fluido il mercato mondializzato. E va aggiunto che l'eventuale forzatura alla standardizzazione comporterebbe un elevato grado di conflitto in questo processo di rinazionalizzazione.
E' più prudente seguire il processo inverso. caricare di forza le attuali nazioni e renderle convergenti, progressivamente, verso l'adesione ad un unico standard mondiale di cui faranno manutenzione locale, nei modi specifici richiesti dalla particolarità storica e geografica di un luogo.
Ciò implica l'idea di un mondo fatto di nazioni sempre più simili per ordinamento democratico e giuridico, tutte aperte ai flussi di mobilità mondiale, ma ciascuna dotata di strumenti sovrani per definire il proprio modo per partecipare al mercato globale. Complessivamente, la ricerca dovrebbe andare verso la definizione di un bilanciamento tra autonomia nazionale e requisito di standardizzazione "tecnica" mondiale.
Sembrerebbe superfluo enfatizzare questo punto in quanto le tendenze attuali, che partono da livelli nazionali sovrani, impongono un'inerzia che per forza definisce una direzione ovvia verso il metodo detto. In realtà é meglio esplicitare la questione, anche sulla base dell'esperienza europea. E' del tutto inutile proseguire la traiettoria di integrazione europea fino al punto di creare una "supernazione". Togliendo oltre misura sovranità alle nazioni europee - qualora fosse possibile - si indebolirebbe l'organo di manutenzione locale del mercato europeo stesso. E alla fine le richieste di specificità dei luoghi rientrerebbero dalla finestra comportando una rinazionalizzazione. Che, se osteggiata da un centralismo europeo, avrebbe in se il rischio di aumentare i conflitti. E' molto più efficiente armonizzare quanto serve al funzionamento del mercato unico europeo, lasciando agli Stati una sufficiente sovranità per poterlo attuare localmente. In questi casi la sovranità nazionale é un elemento di flessibilità, quindi di robustezza dell'intera architettura, se messa al servizio dell'apertura e standardizzazione tecnica richiesta dal mercato. Nello scenario attuale questo modello di Europa delle nazioni convergenti appare affermarsi nei fatti. Ma c'é sempre il rischio che la retorica dellla supernazione europea, combinata con i requisiti oggettivi e tecnici di integrazione che servono alla formazione fluida del mercato unico, porti alla costruzione di un modello troppo semplificato ed inutilmente centralizzato. In piccolo, l'esperienza europea mostra oggi i principali problemi di disegno per costruire un'architetturas politica del mercato globale, domani. Il modello giusto - nel senso che bilancia meglio requisiti di omogenità e flessibilità- é quello di un sistema cooperativo tra nazioni che generi vincoli comuni, nell'ambito di un'ampia flessibilità per trovare localmente i modi per rispettarli. In sintesi, l'unità base dei mercati unici regionali che sono di fatto precirsori del nuovo ordine mondiale dovrà basasrsi su un rafforzamento dello Stato nazionale e non certo su una sua sparizione.
L'importanza dello Stato nazionale, in particolare, sta nel suo essere un organo già predisposto storicamente a tenere sotto controllo le regole microeconomiche di un territorio affinché queste non diventino ostacolo oppure fattore di instabilità per l'economia globale. La crisi finanziaria e bancaria asiatica del 1997 é stata generata, fondamentalmente, da problemi di opacità microeconomica nelle nazioni. Questo fa capire che per aumentare la stabilità e la fluidità del mercato globale é necessario che qualcuni regoli questi aspetti nella direzione della trasparenza e certezza. E lo può fare meglio lo Stato nazionale storicamente emerso su quel terriotrio che non un unico organismo centralizzato a livello mondiale. In tale senso la missione dello Stato nazionale é quella di agire come organo di applicazione e manutenzione locale degli standard che servono al buon funzionamento (in particolare finanziario) del sistema complessivo.
In conclusione, il problema non é quello di depotenziare le sovranità nazionali, ma al contrario, quello di rafforzarle per la missione di manutenzione locale degli standard globali. Ovviamente il processo politico critico consiste nel portare ciascun stato del pianeta a convergere verso gli stessi criteri. E lo vedremo. Ma è importante definire il punto di arrivo. L'architettura politica del mercato globale dovrà basarsi su un insieme di stati nazionali allo stesso tempo sovrani e convergenti verso sistemi non necessariamente uguali, ma certamente compatibili.
3.2.2.2. Dall'ordinamento debole a quello forte: la transcostituzione economica
Detto questo, resta il problema di quale standard costituisca il modello di riferimento per tutti gli Stati affinché questi vi convergano. E' poco probabile che tutti gli Stati possano mettersi d'accordo spontaneamente. Ciascuno deve dare priorità alle proprie specificità ed interessi interni. Qualcuno potrebbe dire che la libertà del mercato é così evidentemente benefica per tutti che basterebbe questo per ottenere nel futuro un allineamento di fatto tra i diversi paesi. Ma questa immagine é troppo ottimistica. E' vero che le singole nazioni non possono permettersi di andare troppo contropelo al mercato perché questo le punirebbe, semplicemente, portando via i capitali o non mettendoceli. Tuttavia l'apertura al mercato non basta. Può non essere sufficiente (caso europeo). Può essere troppo priva di regole di trasparenza e certezza (caso asiatico). E il requisito di evitare punti di bloccco al mercato, visto sopra, non può ammettere una libertà eccessiva di intepretazioni sulle regole economiche. Può ammettere variazioni sui modi per crearle ed esercitarle nei territori, cioé una indeterminazione di processo, ma limitata entro cornici chiare e valide per tutti.
Per dare un'architettura politica al mercato globale è necessario orientare la ricerca verso la possibilità di creare una costituzione economica mondiale. Il nome "transcostituzione" sembra adeguato in quanto definisce non tanto un governo mondiale vero e prorio, ma un codice di riferimento che tutti i paesi si impegnano a rispettare. Esistono già dei motori parziali che girtano verso tale direzione. per esempio, il Wto é un precursore di quel pezzo di transcostituzione economica destinato a regolare l'apertura dei mercati nazinali, tutelandola. I criteri macroeconomici di stabilità sui quali opera il Fondo monetario internazionale possono essere visti come degli anticipatori delle regole di bilancio a cui dovrebbero attenersi tutti i paesi. In sintesi, esiste già un movimento iniziale che crea regole comuni. certamente si tratta di partire da questo per poi arrivare, nei decenni, ad un ordinamento cooperativo tra gli Stati del pianeta. Tuttavia ci vuole un'idea più forte sia per accelerare il processo sia per dargli una struttura più precisa e semplificata. Appunto, l'idea di transcostituzione economica. Questo non vuol dire cercare di forzare i tempi anche se le situazioni nazionali non sono pronte. Ma vuol dire cominciare una pressione affinché gli stati accettino l'idea che nel prossimo futuro dovranno accettare un codice di comportamento vincolante, più forte di quello che può essere l'approccio per trattati settoriali. In tal senso un sistema transcostituzionale.
E l'accettazione di questo, darà a tutti gli Stati, pur nella loro diversità specifica, la stessa natura di organi di manutenzione locale delle regole del mercato globale.
3.2.2.3. I contenuti ordinativi
Stabilita la rilevanza del progetto transcostituente, si apre il problema di vedere quali ne saranno i contenuti.
Il primo e più importante riguarda l'assetto di fondo di ogni Stato nazionale. E' evidente che ciascuno dovrà darsi un modello di "Stato della crescita", visto nel capitolo precedente, in quanto é impensabile che una nazione possa partecipare positivamente al processo mondiale di crescita continua se si basa su una struttura troppo vincolata per far fluire i processi del mercato. E questo pone il problema della rinuncia a protezionismi, da un lato, e a forme pesanti di statosocialismo, dall'altro. Ma proprio questo imperativo pone il problema di come ammettere negli ordinamenti nazionali degli strumenti di tutela che permettano sia la formazione concorrenziale del capitale umano, il vero rifornimento di carburante del mercato globale, sia una ragionevole dtazione di garanzie che eviti sbilanciamenti sociali. La soluzione di fondo é definire la priorità dell'assetto di crescita (cioé un'economia nazionale più liberalizzata che regolata), lasciando entro cornici di lmimite ad ogni Singolo Stato trovare il suo proprio sistema di garanzie.
Più delicato è il tema di quanto un codice economico interagisca con l'esigenza di avere sistemi democratici. I casi reali mostrano che un'economia della crescita non ha necessariamente bisogno di un'organizzazione democratica del potere. La questione non é semplice. Soprattutto per quei paesi emergenti dove lo sviluppo prende velocità notevoli proprio grazie al fatto che non esitono ostacoli politici posti dalal rappresentanza di interessi tipica del gioco democratico. Evidentemente il tema dovrà essere trattato con gradualità. Ma é forse il più importante. I paesi occidentali hanno costi economici incomprimibili basati sul fatto che il sistema democratico ha imposto il rispetto di diritti economici. Stabilita la necessità di una tendenza che renda questi diritti sempre meno onerosi in termini di interventismo statale e più basati sul concetto di investimento preventivo sugli individui, resterà comunque il fatto che un paese privo di questi vincoli avrà più possibilità di usare la risorsa della povertà rtelativa per competere con gli altri. E l'interesse del sistema occidentale é vincolare i paesi emergenti agli stessi costi sociali di quelli più maturi. Ed il modo migliore per farlo é inserire il sistema democratico nei sistemi che non ce l'hanno. Ovviamente questo non sarà possibile presto. Ma la tendenza dovrà essere chiarita come obiettivo comune ed essere fonte del patto cooperativo per la gestione del mercato globale.
Apparentemente più semplice é l'obietivo di vedere sviluppare nel futuro un unico sistema di diritto civile che regoli le relazioni economiche e di proprietà. Tuttavia il problema non é tanto, anche se prenderà decenni, il fare una carta comune. Lo é l'ottenere il rispetto reale delle norme. Mentre nell'ambiente europeo e statunitense c'é una sufficiente certezza di applicazione delle regole e controllo effettivo delle stesse, lo stesso non appare negli ambienti asiatici. E comunque saranno più i paesi che non potranno dare garanzie reali in merito che non quelli che saranno credibili in materia. Quindi la transcostituzione dovrà per forza prevedere la possibilità di controlli intrusivi in ogni nazione per il rispetto delel regole economiche. E' un punto delicato, ma critico per la fluidità entro ogni nazione dei processi di mercato globale.
Questi ed altri temi costituiscono l'agenda di ricerca ulteriore per dettagliare il modello di ordine mondiale qui prospettato. E sono stati citati solo per dare un'idea della complessità tecnica e politica del progetto. Ma ancora più complesso é vedere la possibilità che si metta in moto il motore politico capace di sviluppare un disegno del genere.
3.2.3. Il motore politico: un nuovo sistema atlantico.
Per dirla in breve, la possibilità o meno di ottenere un ordine mondiale positivo nel prossimo futuro dipende dalla probabilità e volontà di accordo tra americani ed europei nel farlo. Se i due non trovano un accordo, o lo trovano solo di minima, sarà molto difficile che si formi la massa critica capace di forzare nel tempo gli altri stati del pianeta verso un modello convergente della natura detta sopra. E in un mondo che resta troppo a lungo in transizione senza risolverla, é probabile che emergano poteri d'altro tipo (per esempio un mercato globale governato dai consigli di amministrazione di grandi gruppi finanziari cartellizzati) o potenze geoeconomiche di tradizione diversa da quella democratico-occidentale, tipo la Cina. Oppure una combinazione tra le due cose. E' difficile dire cosa potrebbe succedere in tal caso. Ma la sensazione, forse troppo prudente e conservatrice, é che il miglior risultato auspicabile sia quello di ottenere un'architettura politica del mercato globale che non sia troppo diversa dal modello interno degli Stati Uniti o dell'area europea, se questa toglie di mezzo gli eccessi statalisti. Quindi il ricercatore impegnato a definire proiezioni di desiderabilità, chiede al lettore se se la sente di mettere a rischio questi modelli di riferimento. Se non se la sente, allora quello che segue pare una ragionevole impostazione strategica.
L'essenza del piano è quella di integrare una massa critica di paesi occidentali che, grazie alla scala, sia poi in grado di detrminare le regole di cooptazione per tutti gli altri nel nuovo sistema dell'ordine mondiale. Il ragionamento si basa sulla considerazione che Stati Uniti (e sistema economico panamericano) ed europei insieme formerebbero una coalizione non sfidabile da alcuno né in termini di militari né tantomeno economici. Banalmente, sarebbe una fusione per ottenere attraverso l'effetto sacala il dominio dell'ambiente di riferimento. Un tale sistema di alleanza, infatti, avrebbe la forza di definire regole appropriate ai propri interessi e costringere gli altri a seguirle e, successivamente, a farvi parte. Giappone per primo in quanto già in qualche modo componente del sistema occidentale. Il punto critico sarebbe quello della cooptazione della Cina nel sistema di alleanza. Ma una volta ottenuto questo, con la dovuta gradualità, il nuovo ordine mondiale sarebbe fatto.
Questa idea semplice, tuttavia, appare difficilissima a realizzarsi sulla base delle tendenze attuali. Come visto in precedenza gli Stati Uniti tentano di operare come potenza singola mondiale cercando di ottenere una cosa simile a quella qui detta, ma tarata sul loro specifico interesse nazionale. Gli europei hanno meno ambizioni mondiali nell'immediato. Ma, per lo meno per quello che riguarda l'attuale atteggiamento di Francia e, più nascostamente della Germania, si vede una tendenza a giocare un ruolo di potenza globale in concorrenza con gli americani. E comunque prevalgono le preoccupazioni immediate a concentrarsi più sull'interno degli affari europei, per consolidarli, che non a vederne ulteriuori sviluppi sul piano esterno. Di fatto l'Occidente é diviso e le relazioni transatlantiche tendono a prevedere eventi cooperativi solo di "minima". Questa constatazione potrebbe suggerire di gettare quanto qui scritto nel cestino delle idee irrealizzabili.
Ma un'analisi più approfondita mostra che questa situazione di infattibilità si basa sul fatto che americani ed europei tendono ancora a vedere i problemi del futuro con gli occhi del passato. C'é ancora molta inerzia ed é comprensibile. Ma già il futuro comincia a proporre dei binari che implicano la cooperazione sempre più stretta tra i due continenti. L'area del dollaro e dell'euro dovranno per forza mettersi a cooperare. La volatilità incontrollatra tra i due, con il terzo incomodo dello yen, diventerebbe un danno per gli stessi e per la stabilità complessiva del sistema mondiale. Quindi prima o poi si siederanno ad un tavolo per definire una "target zone" che limiterà le oscillazioni di cambio. Ma tale accordo dovrà per forza sostenersi con altri livelli di cooperazione integrativa. Tali da dar vita ad un'area transatlantica di libero scambio, già sulla carta, ma lontanissima nelle volontà politiche (soprattuto quelle europee ancora convinte che il protezionismo economico possa ancora esistere ed essere benefico).
Tanti altri fatti in corso potrebbero sostenere l'idea che l'infattibilità del nuovo patto atlantico sia solo una questione in esaurimento. Ma ciò che è importante è il cominciare ad esplicitare l'idea della nuova architetturas politica del mercato gloabale a partire da un motore euro-americano, o americano-europeo se si vuole, in forma di nuovo patto transatlantico che ne deve essere il pilastro. La formazione di un'opinione iubblica in tale direzione, la creerebbe ed accelererebbe.
In conclusione, questo testo di appunti per impostare ricerche future serve per invitare i colleghi a dedicarsi al problema dell'ordine mondiale generando idee progettuali. Chi scrive continuerà a farlo sviluppando la bozza qui presentata. Ed il messaggio metodologico in essa contenuto è il seguente, per altro visibile nel modo con cui é stata organizzata. Per generare un'economia mondo che funzioni dobbiamo disegnarne le istituzioni politiche. La globalizzazione, la nuova economia, non sostituisce l"economia" alla "politica" come appare superficialmente dall'apparente primato della prima sulla seconda. E' l'esatto contrario. L'economia ha molto più bisogno di politica di quanto si pensi.