Euroscenari:
come difendersi nel caso di crollo totale o parziale dell’eurosistema
Di Carlo Pelanda
Studio
elaborato per l’UNIC
Dicembre 2010
Introduzione
La creazione
dell’euro, inizialmente prevista nel Tratto di Maastricht (1993) come atto finale
di lungo termine del processo di integrazione dei mercati europei, fu
accelerata per motivi politici. Dopo la riunificazione della Germania (1989) La
Francia (Mitterand) temette che Berlino diventasse la
potenza singola europea non più bilanciabile e la costrinse ad abbandonare il
marco che era lo strumento principale della sua forza. Nel 1996 la Germania
(Kohl) accettò l’idea per timore che esplodesse nuovamente la questione tedesca
con l’esito di isolarla. Ma Berlino impose (Trattato di Amsterdam, 1997)
un’architettura della moneta unica basata sulla convergenza delle politiche di
bilancio delle nazioni verso uno standard comune e non su un governo integrato
dell’economia. Inoltre volle degli standard calibrati sul peculiare – in quanto
idealistico e non pragmatico - concetto
tedesco di “ordine economico”, cioè, semplificando, meglio la recessione
piuttosto che rischiare un pelo di inflazione. Così l’idea francese di
risolvere la questione tedesca europeizzando la Germania si trasformò in una
germanizzazione di fatto del modello economico europeo. Con conseguenze
drammatiche sul piano tecnico: (a) l’architettura monetaria così concepita
divenne una cappa deflazionistica, cioè un impedimento alla crescita, per i
sistemi economici delle nazioni europee; (b) l’assenza del governo unico
dell’economia europea tolse il “patrimonio politico” alla moneta comune; (c)
non creò gli strumenti di bilanciamento degli squilibri in un’area monetaria
dove convivevano sistemi economici forti e deboli, creando anche la situazione
assurda di costi differenti per il rifinanziamento dei debiti sovrani pur
questi denominati nella medesima moneta. Infatti nel 1999, anno di avvio
formale dell’euro ancora non cartaceo, il Prof. Feldstein
(Harvard University) firmò una previsione di
dissoluzione futura dell’euro per i suoi, perfino sorprendenti in negativo,
difetti di architettura. Chi scrive, dal 1996 al 1999, mise in luce lo stesso
rischio sia in lavori scientifici sia sulla stampa italiana, marcando gli
svantaggi aggiuntivi per la nostra economia nazionale. Ma pochi accettarono di
riflettere criticamente sulla materia. A fronte delle segnalazioni di debolezza
dell’architettura, espresse con l’immagine di un tetto costruito senza i muri,
fu risposto che proprio l’esistenza del tetto, cioè dell’euro, avrebbe
costretto le nazioni partecipanti a costruire velocemente i muri di sostegno,
cioè a convergere verso il modello ordinativo tedesco. Ma ciò non avvenne ed al
primo vero stress, dovuto alla crisi finanziaria/recessiva 2007-09, l’euro-architettura
si dimostra traballante. Tale situazione implica l’impossibilità di escludere
la dissoluzione dell’euro e rende necessario prepararsi a questo caso peggiore,
ancora non probabile, ma recentemente a probabilità crescente.
Perché e per chi l’euro è insostenibile
L’euro gestito come
il marco appare insostenibile per tutte le economie nazionali diverse dalla
Germania (e forse per la Germania stessa). Il problema di fondo, e più grave
sul piano strutturale, non riguarda la moneta, ma i modelli economici delle
principali economie europee: Francia, Germania ed Italia: questi sono
sbilanciati sul lato del protezionismo sociale con meccanismi che limitano
fortemente la crescita dei mercati interni (tasse, costi sistemici, vincoli).
Dai primi anni ’90, infatti, finanziano le tutele più con ricorso al deficit
che con la crescita del Pil. L’esito è che tutti, Germania compresa, hanno
aumentato nel tempo il volume complessivo del debito pubblico. L’euro va visto
come un fattore peggiorativo di questa situazione perché le sue regole
impediscono operazioni di ricorso al deficit temporaneo per ridurre le tasse e
la sua gestione da parte della Bce ne mantiene il cambio artificialmente
elevato, così deprimendo le esportazioni. La sostenibilità per questi modelli
si basa sulla possibilità di compensare la poca crescita interna con un volume
elevato di esportazioni (e di surplus commerciale). Le nazioni con export più
sensibile al cambio, come l’Italia, soffrono la politica dell’euro alto. La
Germania la soffre di meno perché la sua industria produce ed esporta grandi
sistemi e beni meno sensibili al cambio. E per questo Berlino insiste sull’euro
forte e sulla deflazione da rigore. Ma le nazioni con sistema industriale diverso
(Italia e Francia) o più debole (per esempio Spagna) o inesistente (Grecia,
Portogallo, ecc.) si trovano con una moneta troppo forte in relazione alla loro
economia reale, nell’impossibilità di svalutare, e per questo crescono meno del
loro potenziale. Nel primo decennio del 2000 tale situazione ha indebolito
parecchie economie nazionali sul piano strutturale. Altre, prive di sistemi
industriali, hanno forzato la crescita interna mettendo in bolla il settore
immobiliare (Spagna) o quello dei sistemi finanziari (Irlanda) o,
semplicemente, truccando i bilanci accendendo deficit nascosti (Grecia). In
sintesi, allo scoppio della crisi finanziaria (2007) e poi recessiva (2008), la
maggior parte dell’eurosistema si trovò
strutturalmente indebolito, in alcuni casi con la complicazione di una finanza
pubblica destabilizzata ed il problema di implosione di bolle. Ciò portò a
crolli del Pil combinati con indebitamenti d’emergenza per finanziare
molteplici salvataggi portando l’attenzione del mercato sulla sostenibilità dei
debiti sovrani di molte nazioni. Quando il mercato vide che la Germania si
rifiutava di garantire con un prestatore europeo di ultima istanza i debiti
delle nazioni più nei guai ha preteso, razionalmente, un premio crescente per
rifinanziarli. Se questo premio cresce troppo, o il mercato si rifiuta perfino
di partecipare alle aste di titoli di Stato, le nazioni colpite dalla sfiducia sono
a rischio di dover dichiarare l’insolvenza e/o uscire dall’euro, creando così
le condizioni per la dissoluzione dell’euro stesso. Questa è esattamente
l’emergenza che gli Stati europei e la Bce stanno cercando di gestire dai primi
mesi dell’anno e che resta ancora irrisolta, per questo aggravatasi, nel
Dicembre 2010.
Le probabilità di sopravvivenza o dissoluzione dell’euro
Per chiudere
l’emergenza e dare una minimia stabilità all’eurosistema
nel medio termine sarebbe sufficiente creare un prestatore europeo di ultima
istanza che dia la garanzia assoluta di copertura ai debiti dell’eurozona
oppure generare un ente di emissione europeo per i titoli di debito (gli eurobond), anzi una combinazione delle due cose. Se il
mercato la vedesse in atto ridurrebbe il premio di rischio per rifinanziare i
debiti sovrani su cui ha meno fiducia e ciò calmerebbe le acque. Per un po’.
Poi verrebbe fuori un’altra emergenza, cioè quella della poca crescita e quindi
della difficoltà della nazione a ripagare i debiti, pur garantiti. La soluzione
di questa seconda emergenza, che è poi quella strutturale nell’eurosistema, avrebbe bisogno di due politiche. Nel
breve-medio termine una svalutazione competitiva dell’euro per permettere alle
economie più deboli di fare più export, o attrarre più turismo ed investimenti,
via cambio favorevole e così aumentare i Pil. Nel medio/lungo, riforme dei modelli
economici per liberare più crescita interna, in particolare consumi ed
investimenti. Il tutto, in dieci anni, entro un quadro di rigore dei bilanci
pubblici, ma calibrato sul requisito di non deflazionare troppo i sistemi
economici con tagli alla spesa che rendano negativo il Pil. Ciò serve a dire –
ipotizzando un’economia globale senza momenti catastrofici nel prossimo futuro
ed una almeno relativa tenuta del dollaro e dell’economia statunitense – che
non è molto difficile, in teoria, impostare una riparazione a tappe dei difetti
dell’eurosistema per evitarne, nel breve, la
dissoluzione e per renderlo sostenibile nel lungo termine. Ma, in pratica, l’ostilità della Germania per
soluzioni europee e per scelte che implichino anche un minimo rischio di inflazione,
nonché la difficoltà in tutte le nazioni a riformare i modelli di Stato sociale
rende incerto tale buon esito. E per questo motivo bisogna “probabilizzarlo”
in combinazione con l’esito opposto.
Bassa probabilità di
dissoluzione a breve
La Germania resiste
all’idea di formare un sistema paneuropeo di garanzia dei debiti in euro –
proponendo in alternativa garanzie solo parziali e condizionali - perché la maggioranza dei tedeschi non vuole
usare soldi nazionali per finanziare la soluzione dei disordini altrui. Il
sistema politico tedesco vede la rinazionalizzazione
delle opinioni e teme di perdere consenso se accettasse soluzioni europee.
Inoltre, Berlino è da sempre ostile a cessioni di sovranità in quanto ha scala
di potenza singola e quindi la possibilità di trarre vantaggi geoeconomici differenziali da questa situazione. Ma la
Germania conta nel mondo, e strappa contratti superfavorevoli per la sua
industria, se resta la potenza
principale della Ue ed in tale ruolo “fa G3” con America e Cina. La crisi
dell’euro comporterebbe quella della Ue e quindi un indebolimento di Berlino.
Inoltre la crisi dell’euro, anzi di un solo debito nazionale eurodenominato, devasterebbe il sistema bancario tedesco
ancora non riparato dopo la crisi finanziaria e strutturalmente indebolito
dalla montagna di crediti inesigibili e buchi finanziari delle banche locali a
partecipazione pubblica. Queste considerazioni portano a prevedere che la
Germania tenterà di resistere fino all’orlo del burrone, ma che quando vedrà la
voragine mollerà usando la sua forza di diniego per minimizzare i costi della
soluzione europea. La situazione è già a questo punto. Nell’ultima settimana di
novembre la Bce ha accettato l’idea, scandalosa per il suo statuto a causa
dell’implicazione inflazionistica, di comprare titoli di Stato, anche
infischiandosene del voto contrario del rappresentante tedesco. Il segnale è
stato: la Bce deve operare in deroga e contro la Germania per salvare l’euro.
Pertanto Berlino sarà costretta ad accettare un qualche compromesso che porti
ad uno strumento di garanzia assoluta dei debiti. Che, alla fine, non dovrà
essere del tutto assoluta in quanto i mercati, in particolare i megafondi
pensione, sono disperati per il cedimento dei titoli di debito sovrano finora
considerati sicurissimi e quindi ancoraggio certo per le remunerazioni di lungo
termine. In tale situazione il mercato non pretenderà la certezza assoluta, ma
solo una ragionevole. Anche perché la “certezza ragionevole” implica premi di
rischio più elevati, ma con rischio minimizzato, quindi più profitto sul
mercato dei titoli per gli operatori specializzati. E per le banche. Tale
situazione darà qualche margine in più al compromesso rendendolo possibile. In
base a queste considerazioni la probabilità che l’euro salti nel 2011 è
piuttosto bassa, anche se non escludibile sia per rigidità tedesca (che ha già
causato caos) sia per l’instabilità globale che potrebbe essere una scusa, alla
fine, per liquidare l’euro. Ma prendo posizione sulla probabilità bassa di
dissoluzione dell’euro a breve termine.
Alta probabilità di
dissoluzione a medio/lungo termine
Ben diverso, invece,
è lo scenario della tenuta dell’euro a medio e medio/lungo termine. La
creazione, in varie forme possibili, di un garante di ultima istanza per i
debiti sovrani europei non implica necessariamente la sostenibilità di tali
debiti da parte dei sistemi economici più deboli (Grecia, Portogallo, Spagna) o
finanziariamente già squilibrati (Italia, Irlanda, Belgio, ecc.) o più ostili
alle riforme di efficienza (Francia). In ogni caso, nel compromesso, la
Germania imporrà un rigore stringente. In questo vi sarà un consenso diffuso
sia da parte di organi tecnici (Bce, Commissione europea e Fondo monetario
internazionale) sia di parecchie nazioni “nordiche” (Austria, Olanda,
Finlandia, ecc.). Ciò in ogni caso terrà rigida la “gabbia”. Gli Stati con
maggiori problemi di crescita e di volume di indebitamento, quindi, saranno
costretti a livelli di rigore (tagli di spesa pubblica per non aumentare il
debito) che ridurrà il capitale immesso nel mercato interno e questo – per
deflazione – andrà in recessione o stagnazione. Se il cambio dell’euro resterà
alto non potranno bilanciare la brutta situazione esterna aumentando l’export o
l’importazione di capitali via turismo ed investimenti opportunistici. La poca
crescita ridurrà il gettito e ciò aumenterà i tagli alla spesa pubblica,
innescando una spirale che porterà alla insostenibilità sociale del rigore,
cioè a rivolte dei salariati, oppure all’aumento delle tasse, cioè a rivolte
degli imprenditori e dei commercianti espresse in forme di evasione ed elusione
crescente. Tale clima porterà il calcolo costi/benefici a considerare l’uscita
dall’euro, ed il recupero della flessibilità monetaria e della crescita, come
il male minore o comunque necessario. Per esempio, un simile concetto è già
stato abbozzato dal Prof. Paolo Savona sulla stampa italiana. Tale scenario
catastrofico, in sviluppo possibile nei prossimi 5 anni, potrebbe essere
moderato o evitato solo dalla svalutazione dell’euro e da riforme di efficienza
e liberalizzazione nei sistemi a poca crescita. Ma tali riforme, con la portata
sufficiente, sono improbabili nel breve-medio termine per problemi di consenso.
Da un lato, le democrazie reagiscono meglio di quanto normalmente si pensi di
fronte all’emergenza. Dall’altro, la percezione condivisa di un’emergenza tende
a realizzarsi solo quando la voragine è visibile a tutti in modo non ambiguo e
ciò potrebbe verificarsi quando sarà ormai troppo tardi. Pertanto resta solo
l’opzione della svalutazione competitiva dell’euro per evitare l’esito
catastrofico via un aumento della crescita. Ma Bce e Germania sono contrarie a
farne troppa per timore di inflazione e la seconda potrebbe preferire la sua
uscita dall’euro per evitarla. Inoltre, l’accelerazione della ripresa americana
richiede un dollaro debole e, quindi, l’euro, oltre che il renvimbi,
alto. Infine, la configurazione del sistema finanziario sia europeo sia
statunitense, nonché quella dei Paesi emergenti, è già di tipo inflazionistico,
cioè caratterizzata da eccessi di liquidità non facilmente assorbibili dalle
banche centrali. Un’ondata di inflazione peggiorebbe
tutto il quadro qui abbozzato rendendo ancora più stringente la politica
monetaria dell’Eurozona e, soprattutto, alzerebbe i costi di servizio del
debito (interessi) senza aumentare la crescita. E per alcune nazioni, tra cui
l’Italia con un enorme volume di debito storico, la situazione diventerebbe
insostenibile. Alla luce di queste considerazioni ritengo elevata la
probabilità di gravi incidenti e/o sostanziali cambiamenti nell’eurosistema, tra cui la sua dissoluzione o uscita di alcune
nazioni, nel medio/lungo termine.
Quanto elevata? E’
difficile determinarlo anche con il metodo delle stime perché, ovviamente, in
vista dell’esito catastrofico vi sarebbero controreazioni sia europee sia
globali per evitarlo. Ma si può dire razionalmente che la discontinuità totale
o parziale nell’eurosistema non è escludibile, in
particolare se lo scenario si concentra sull’Italia. Prova che questa
valutazione sia al momento realistica sono le crescenti proposte –
particolarmente in Germania – di creare due aree monetarie nell’Eurozona. Ma
l’importante negli studi di scenario è tentare un numero e qui mi sento di
proporre che la probabilità, in un orizzonte di 5 – 7 anni:
-
di dissoluzione
dell’euro o di restringimento della sua area è del 50%
-
di uscita
dell’Italia dell’euro è del 40%.
Sono numeri solo
indicativi di un clima corrente proiettato, non sostengono necessariamente una
profezia catastrofica, ma, nello spirito con cui devono essere usati gli
scenari ipotetici, il loro significato porta sia a studiare il caso negativo più in
dettaglio sia a prefigurare gli schemi di difesa, in caso.
Il caso ipotetico del ritorno dell’Italia ad una
moneta nazionale
Il collasso
possibile dell’euro potrà essere totale o parziale ed avvenire in diverse
modalità. Tra tutte queste opzioni la più probabile è quella di formazione di un
sistema monetario europeo che limiti le oscillazioni di cambio tra valute.
Potrebbe essere un’area euro fatta di Francia e Germania con altri minori
mentre le nazioni mediterranee tornano a monete nazionali o il ritorno di tutti
alle stesse. Ma comunque ciò non cambierebbe lo scenario, in caso, che vede il
“post euro” piuttosto simile al “pre euro”, cioè la
formazione di un sistema monetario in ogni caso regolato sul piano delle
massime divergenze nazionali ammesse. Anche se il crollo fosse violento, e non
si può prevedere per quale esatto evento, comunque la ricostruzione del sistema
avverrebbe entro un quadro di ri-convergenza perché
nessuno vuole guerre economiche.
E’ improbabile che
l’Italia decida con mossa unilaterale di uscire dall’euro. Ed è improbabile che
l’euro possa resistere all’uscita di un’economia maggiore come quella italiana.
Ha più probabilità, invece, lo scenario, in caso, di un’Italia costretta ad
uscire dall’euro entro qualche accordo con gli altri europei oppure perché
l’euro viene abbandonato da tutti.
In ambedue i casi i
punti critici, semplificando, sarebbero tre: (a)
gestione del debito in fase di conversione dall’euro alla nuova moneta
nazionale; (b) fuga del risparmio degli italiani verso monete “forti”; (c)
pressioni, in particolare della Germania, per limitare la svalutazione
competitiva della neolira italiana. Come gestire tali situazioni? L’azione
avverrebbe in ambiente assistito perché l’insolvenza totale di un debito
sovrano pari a più di due trilioni di dollari, pur posseduto in buona parte da
cittadini italiani, ha la scala e la diffusività per destabilizzare l’intero
sistema finanziario globale. Pertanto Fmi, Eurozona residua, Ue timorosa che le
uscite parziali la spacchino, ecc. certamente accompagnerebbero l’Italia nella
riconversione per condizionarla.
Ci sarebbe una soluzione per il debito? Il
dichiararne l’insolvenza metterebbe l’Italia per decenni tra gli inaffidabili
con danno fatale al suo ciclo del capitale. Si potrebbe convertire il debito
nella nuova lira e continuare a pagare gli interessi come dovuti senza
dichiarare l’insolvenza. Ciò provocherebbe una svalutazione comparativa dei
titoli di debito italiani, ma inferiore a quella dell’insolvenza e,
soprattutto, con la possibilità di essere ridotta nel futuro al migliorare del
cambio della nuova valuta. Per almeno un triennio la Banca d’Italia dovrebbe
comprare titoli di debito per rifinanziarlo a costi sostenibili, cioè stampare
moneta e fare inflazione a scapito del valore di cambio.
Ad occhio, la nuova lira, all’inizio, avrebbe
un cambio attorno lo 0,50 in relazione all’euro residuo (marco) e circa lo 0,70
in relazione al dollaro. L’export ed il turismo italiano andrebbero in boom,
con crescita del Pil tra il 4 ed il 7% per un lustro. Ma in fase di conversione
i risparmiatori sposterebbero i depositi in euro fuori dall’Italia. Per
evitarlo i conti bancari dovrebbero essere congelati temporaneamente a sorpresa
e l’euro in deposito sostituito con la nuova moneta nazionale. Fino a qui cosa
guadagneremmo e perderemmo? Rischieremmo una crisi bancaria, una rivolta dei
risparmiatori ed un rialzo dell’inflazione, ma avremmo più crescita
dell’economia reale ed un minore peso del debito in termini di interessi. Ma la
nostra svalutazione competitiva, se oltre misura, metterebbe in grave
difficoltà le nazioni che restano in euro e queste minaccerebbero dazi contro
l’Italia che ne penalizzerebbero gravemente l’export intraeuropeo.
Pertanto emergerebbe un compromesso di svalutazione ammessa, ma questo
ridurrebbe il vantaggio dell’uscita dall’euro dando più peso ai rischi. Per
contenerli bisognerebbe comunque abbattere una parte del debito, almeno il 20%,
attraverso una formula mista di prelievo forzato dai conti bancari (tipo Amato,
1992) e di liquidazione parziale del patrimonio pubblico, mettere in
Costituzione il divieto di deficit annuo, cioè aumentare di molto il rigore (e
le restrizioni ai consumi energetici basati su importazioni) in relazione a
quello corrente. In sintesi, non sarebbe necessariamente una catastrofe, ma non
lo sarebbe perché comunque vincolati ad un binario d’ordine imposto
dall’esterno che limiterebbe i vantaggi della flessibilità. Per questo mi
chiedo che senso avrebbe l’uscita dall’euro in condizioni di aumento di rigore
e non tanto vantaggio di riduzione dell’onere debitorio. Probabilmente il
vantaggio sarebbe il ritorno alla flessibilità del cambio, pur entro limiti, in
quantità sufficienti a rilanciare la crescita.
In sintesi, non
necessariamente la conversione dell’euro in nuove lire sarebbe una catastrofe.
Ma la transizione avrebbe certamente momenti di sia di turbolenza sia di
estrema incertezza, dalla durata pluriannuale. Quindi per un attore economico,
in particolare un’impresa, italiano il punto critico da valutare con estrema
attenzione non è tanto lo scenario generale quanto quello di transizione nella
fase di conversione stessa. In questo potrebbe saltare se non ben preparato. In
caso, la turbolenza in fase di conversione durerebbe almeno tre anni, nel primo
con fenomeni acuti di instabilità.
Le difese da predisporre per l’eventuale fase di
conversione dall’euro alla nuova lira
Le difese, per
aziende con ciclo internazionale di capitale e produzione, sono
prevalentemente, ed ovviamente, finanziarie.
-
(Trappola della
restrizione del credito) Il processo di conversione potrebbe essere
caratterizzato da periodi di congelamento dei servizi bancari ordinari. Non
potranno essere troppo lunghi perché sarebbe il collasso del sistema, che tutti
vorranno evitare, ma potrebbero essere sufficientemente lunghi per mettere in
difficoltà molte aziende, gravi per quelle meno finanziariamente robuste ed
attrezzate. Di fronte a questo rischio l’unica misura è quella di dotare,
preventivamente, l’azienda di un riserva di liquidità che la renda capace di
sostenere per un certo periodo, almeno 6 mesi, il blocco del credito,
factoring, ecc. Tale riserva dovrà essere espressa in valuta non sensibile alla
conversione, cercando il contenitore finanziario idoneo. Quale valuta? L’istinto
porterebbe a scegliere il dollaro. Ma bisogna considerare che lo scenario
catastrofico dell’euro potrebbe non avverarsi, ed il dollaro scendere, e che la
riserva va costruita in precedenza. Quindi la moneta che bilancia meglio i due
possibili scenari è il franco svizzero. Tende a restare agganciato all’euro, e
quindi non si deprezza se questo resta alto, e si presenta come moneta forte
nel caso di conversione in Italia. In sintesi, si raccomanda alle aziende di
costruire una riserva nella moneta indicata, o simile o prodotti finanziari
assimilabili, anche ricorrendo allo strumento della ricapitalizzazione comunque
utile per l’equilibrio finanziario dell’impresa anche se il caso peggiore non
si avverasse ed in preparazione delle restrizioni al credito in relazione
all’orizzonte di Basilea 3. Da farsi in ogni caso. Anche perché una riserva
aziendale in valuta non sottoposta a svalutazione darebbe, se convertita nella
moneta svalutata, un surplus di bilancio – da neutralizzare il più possibile
sul piano fiscale - da utilizzare per
nuovi investimenti utili a cogliere le nuove opportunità esportative
della svalutazione competitiva.
-
(Trappola dei
costi moltiplicati) La priorità è quella di non trovarsi intrappolati in costi
espressi in valuta “forte” non bilanciati dai flussi valutari sul piano dei
ricavi. Per esempio, se un’impresa importa prodotti chimici dalla Germania deve
considerare che, in caso di conversione, quella voce di costo aumenterà nel
bilancio espresso in nuove lire, per esempio del doppio. Il rimedio è semplice:
è sufficiente predisporre un meccanismo di riserva in valuta forte che
neutralizzi l’aumento di costo in termini finanziari. Tale riserva ha due
aspetti. Il primo dovrà essere di riserva preventiva per gestire la “sorpresa”
senza essere sorpresi, per esempio un anno di costo coperto in valuta forte. Il
secondo riguarderà la riorganizzazione dei flussi di ricavo in modo tale che
risulti sempre sufficiente valuta forte per pagare i costi in questa. Per
esempio, una quota dell’export va finanziarizzata in
un ambiente valutario sicuro oppure trasformata in prodotto finanziario che
neutralizzi l’eventuale svantaggio di cambio. Le tecniche sono molteplici e
sicuramente il mercato ne offrirà una varietà, in caso.
-
(Trappola di
blocchi nella filiera produttiva) Nelle turbolenze di conversione è probabile
che molte aziende, in particolar le più piccole e più specializzate in
subfornitura, si trovano in difficoltà finanziarie. Ciò potrebbe non far loro
rispettare gli impegni di fornitura delle aziende a valle creando un blocco
complessivo. Per tale motivo le aziende più grosse devono anche prepararsi a
“fare da banca” ai loro fornitori e ciò deve rientrare nel calcolo dei volumi
di riserva preventiva come sopra abbozzata.
-
(trappoladell’egocentrismo) In previsione di una fase di
turbolenza gli imprenditori potrebbero essere tentati di non reinvestire i
profitti nell’azienda allo scopo di rafforzarne capitale e riserva, mettendo al
riparo i soldi in scatole personali. Si raccomanda vivamente di non farlo e di
dare priorità all’azienda perché senza una forza finanziaria adeguata
rischierebbe seriamente di non sopravvivere alla turbolenza. In cambio di
questa scelta non egoistica l’imprenditore potrà cogliere meglio, in caso, le
opportunità esportative della nuova lira svalutata
facendo megaprofitti futuri. In ogni caso si troverà un’azienda ricapitalizzata
con miglior profilo per il credito bancario e per altri strumenti di crescita.
In generale, si
raccomanda di avviare già ora iniziative precauzionali di ricapitalizzazione e
riserva in modo da poter gestire in sicurezza eventuali turbolenze di
conversione nello scenario di medio termine. Tali azioni, come qui indicate in
linea di massima, sono utili anche nel caso di continuità dell’euro perché, in
sostanza, riguardano il rafforzamento finanziario dell’azienda in un
contesto di mercato nazionale ed
internazionale che in ogni caso lo richiede.