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 4 Aprile 2001, Roma
 9 Marzo 2001, Radio Radicale (conduttore Claudio Landi)
 21 Febbraio 2001, Radio 24 (conduttore Giancarlo Santalmassi)
 
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 Maggio/Agosto 2001-PP 359 - 361 (Daniela Di Cagno), ECONOMIA, SOCIETA'  E ISTITUZIONI 
Maggio/Agosto 2001-pp.479-488 (Antonio Maria Fusco), ECONOMIA  ITALIANA
Settembre 2001 (Claudio Landi), IDEAZIONE.COM
Agosto 2001(Gianni Pasquarelli), LIBRI  TELEMA 
31  Maggio  2001 (Stefano Lepri), LA STAMPA
Maggio  2001, CORRIERE  DELLA SERA
8 Aprile  2001, SOLE 24 ORE
 31  Marzo  2001, IL FOGLIO
25  Marzo  2001 (Paolo Del Debbio), IL GIORNALE
 n.11,  15  Marzo  2001, TEMPI
 21  Febbraio 2001 (A cura di Giancarlo Santalmassi), RADIO 24
Carlo Pelanda e Paolo Savona

 SOVRANITÀ &  RICCHEZZA

Come riempire il vuoto politico della globalizzazione
Sperling & Kupfer

2001

ntroduzione

Attualmente, sul piano strettamente politico, la globalizzazione non è un pieno, ma un vuoto. E rischia di diventarlo anche sul piano economico. Alle spinte derivanti dalla quasi totale libertà di circolazione dei capitali e un po’ meno dei beni e dei servizi non corrisponde, infatti, una parallela spinta alla costruzione di istituzioni capaci di incanalare il capitalismo globalizzato, quello che è stato anche chiamato «turbocapitalismo», verso un corretto svolgersi, cioè verso un’operatività che prevenga inondazioni o siccità di mezzi e si ritorca contro sè stesso e gli assetti democratici che lo sorreggono.

Parte della (re)istituzionalizzazione del mercato in chiave globale è compito che ricade sui singoli Stati nazionali. Essi devono assicurare la competitività economica del loro territorio nei confronti del resto del mondo, accettando le regole del capitalismo mondializzato. Ma la parte più importante di questo processo riguarda le relazioni tra Stati nazionali perché essi devono provvedere nel loro insieme alla costruzione di un’architettura politica del mercato globale che, oltre a definire gli standard ai quali attenersi, dovrebbe essere capace di governare i gap concorrenziali di origine strutturale e le forme di competitività selvaggia.

Gli Stati nazionali vivono questo duplice compito in modo errato, tramutandolo in un sentimento di frustrazione che sfocia in una crisi sostanziale della loro sovranità. Il mondo della cultura, invece di reagire a questo stato di cose, tende a razionalizzarla, sostenendo che gli Stati nazionali non hanno più strumenti politici per incanalare l’attività del mercato globale verso obiettivi condivisi dalla maggioranza dei cittadini. Secondo questa impostazione gli Stati nazionali sono in irreversibile decadenza e possono solo rispecchiare tale crisi, cavalcando la protesta di piazza o reagendo in forma protezionista o abbandonandosi alle regole dettate dal mercato a scapito dei diritti e delle speranze di benessere delle loro popolazioni.

Con queste lacune, la struttura del mercato globale potrebbe indebolirsi e crollare. Se così accadesse, la politica si sarebbe lasciata sfuggire una grande occasione, perché le spinte spontanee dell’economia di mercato hanno offerto al mondo una soluzione per lo sviluppo materiale e per la creazione di condizioni di libertà dei cittadini mai prospettate prima.

Per questo noi riteniamo che una delle prime missioni delle nuove istituzioni internazionali dovrebbe essere quella di rinforzare dall’esterno la sovranità politica dei territori nazionali, affinché ciascun luogo del mondo possa trovare un suo proprio modo d’essere per assicurare la crescita della ricchezza e rafforzare il consenso al mantenimento dell’economia di mercato a livello globale e la diffusione della democrazia. Temiamo, invece, che queste istituzioni si propongano di espropriare ulteriormente a loro favore le sovranità nazionali, nell’illusione, laddove non esista malafede, che questa sia la soluzione del vuoto politico nel processo di globalizzazione.

La novità del nostro approccio, se di novità si tratta, consiste nel concepire una funzione sovranazionale che fornisca, dall’esterno, agli Stati nazionali la possibilità di esercitare una propria sovranità nell’uso dei flussi globali e consenta loro di rendersi più permeabili alle regole del mercato internazionale.

Abbiamo sintetizzato questo concetto denominandolo “sovranità bilanciata”.

In tal modo, uno Stato nazionale avrà la possibilità di restituire ai cittadini quanto più possibile della loro sovranità, riconducendo la politica entro confini più accettabili. Ma potrà farlo solo se un ordinamento esterno renderà possibile il riappropriarsi dei poteri statuali esercitati dal mercato per impotenza o per semplice ignavia delle stesse autorità nazionali.

Se portato avanti da una singola nazione in modo separato dalle altre, il tentativo di pervenire allo stesso risultato è destinato all’insuccesso, dato che il mercato globale ha forza sufficiente per impedirlo e per mantenere uno stato di quasi anarchia planetaria.

Coloro che vogliono conservare la fisionomia attuale del mercato globale credono sia un bene il poter beneficiare dell’assenza di istituzioni di controllo mondializzate e non si accorgono che, invece, il sistema viene minato dalla mancanza di un antitrust planetario, di un governo della moneta svolto in un’ottica globale, di una trasparenza dei mercati finanziari nazionali e di scelte fiscali fatte nei consessi democratici e non imposte dalla volontà del mercato. 

Nel mercato globale sono presenti, ma vengono soffocate, le stesse istanze che hanno portato in passato gli Stati nazionali a costruire istituzioni per tutelare il principio democratico della no taxation without representation (nessuna imposizione fiscale può essere decisa senza rappresentanza democratica dei tassati) e la conseguente necessità di regolare il funzionamento dei mercati della moneta, della finanza e dei beni, nonché di garantire la tutela sociale (il welfare). Ciò conduce a un crescente malumore che, invece di concentrarsi sul vuoto politico per spingere la politica a colmarlo, punta gli strali, come a Seattle (1999) e a Praga (2000), sul meccanismo di mercato e sulla sua spinta globalizzante. Ma così si sbaglia obiettivo!

In passato, si è provveduto a costruire prima l’assetto statuale di esercizio della sovranità, poi quello di esercizio delle regolazione e dei controlli e, più tardi, del welfare. Questo percorso oggi non si può ripetere, perché si deve fronteggiare la complicazione che deriva dall’assenza di un governo globale che convive con la formazione di soggetti finanziari e industriali a raggio planetario, i quali mal tollerano i vincoli dei governi nazionali, finendo con umiliare la sovranità degli Stati. Non auspichiamo, perché pericolosa, l’istituzione di un governo mondiale nel senso stretto del termine, ma riteniamo sufficiente simulare l’esistenza di un organismo sovrano capace di controllare i comportamenti dei mercati a favore di tutti, attraverso una più forte cooperazione tra Stati che si avvalga di organismi sovranazionali aventi come missione quella di restituire sovranità alle nazioni e non di espropriarla.

Il problema quindi non è quello di avere un governo globale, ma di costruire una «funzione politica» globale.

Per raggiungere l’obiettivo di ridare forza alla sovranità nazionale attraverso una buona organizzazione politica del mercato globale, occorre definire uno standard unico da applicare ovunque, accompagnandolo con una «funzione di polizia» esercitata nazionalmente e uguale in tutto il pianeta, con la possibilità d’essere attivata, secondo regole predeterminate, anche dall’organismo sovranazionale che funge da braccio operativo della funzione politica globale. A loro volta gli Stati agiranno da presidio locale del mercato globale e lo faranno se il vuoto politico verrà colmato da istituzioni capaci di rassicurarli nell’esercizio della loro sovranità, sia pure vincolata dalle regole alla cui definizione hanno contribuito.

Il ricarico con rinforzo delle sovranità nazionali dall’esterno ha la natura del chiodo a cui appendere il quadro politico del futuro.

Va sottolineato che nessuna ingegneria istituzionale planetaria potrebbe avere successo senza un sistema monetario  che dia vita a una moneta unica mondiale o a un insieme di monete che ne simuli il comportamento e ne determini gli stessi effetti. Quando si invoca la flessibilità dei cambi lo si fa per evitare mali peggiori nelle crisi di competitività nazionali, cioè in quelle che incidono strutturalmente sull’accumulazione di ricchezza a seguito di recessioni o di boom con effetti endemici. La flessibilità dei ambi è certamente un shock absorber, ma è anche una fonte di disturbi e, pertanto, non è il modello salutare per un sistema economico che voglia creare ricchezza e diffonderla socialmente.

La svalutazione della moneta come reazione d’emergenza a un difetto economico di un’area è, in realtà, un impoverimento differito della popolazione che, solo apparentemente, è una manifestazione di sovranità ma, di fatto, è una sua ulteriore limitazione. In una situazione di emergenza e per breve tempo la svalutazione del cambio si può accettare, ma se diviene sistematica, allora si arriva al paradosso di formalizzare come risorsa normale il ricorso a uno strumento che fa pagare agli individui le incapacità della politica. In tal caso si crea il presupposto per l’affermarsi di forme di concorrenza monetaria tra Stati condotta dalle forze economiche locali o globali, con conseguenze sociali ed economiche molto gravi.

Come insistentemente sottolineato dal Nobel dell’economia Robert Mundell, non è possibile concepire lo sviluppo di un mercato realmente globale, e la promessa di ricchezza crescente per tutti gli individui del pianeta che questo porta con sé, senza prevedere prima o poi un’agenda precisa di formazione di una moneta unica planetaria, preceduta da regole comuni capaci di garantire una stabilizzazione progressiva del valore globale della ricchezza, soprattutto della massa crescente delle sue forme finanziarie.

 Se i governi non sapranno farlo, provvederà il mercato, se già non vi ha provveduto in via permanente, scegliendo il dollaro americano. Questa, però, è una soluzione instabile per tutti e svantaggiosa per gli stessi Stati Uniti.

 Per raggiungere tale scopo occorre un’istituzione sovranazionale che si faccia carico di intraprendere questa via. Il progettare una moneta globale, anche se solo nei suoi elementi preliminari, è il compito forse più arduo e allo stesso tempo più importante della ricerca politica ed economica odierna. Europa docet. Si tratta, infatti, di costruire un luogo di massima sovranità monetaria in un mondo che comunque non potrà concentrare allo stesso modo la sovranità politica. In un mondo normale, come non è più il nostro, la sovranità politica sarebbe componente essenziale di quella monetaria. Al fallimento dell’una seguirebbe inevitabilmente quella dell’altra.

Argomentare su questi aspetti dell’esercizio della sovranità democratica è un compito concettuale molto arduo, ma non ci spaventa. L’innesco della soluzione è quello di concepire una teoria economica fusa con quella politica e viceversa. Questo ci preoccupa un po di più perché troppi sono i colleghi, i ricercatori e i pensatori che ritengono separabili economia e politica, oppure non fruttifero esaltare troppo la loro inseparabilità.

Noi, invece, enfatizziamo tale connessione soprattutto per dotarci degli strumenti utili a capire la soluzione di un’emergenza che si sta profilando all’orizzonte: la crisi di sovranità dello Stato sta trasformando l’azione del mercato in politica stessa e la politica in un vuoto. Cioè in una relazione con il mercato dove la politica procede per abdicazioni successive: rinuncio alla sovranità monetaria nazionale, come nell’Unione Europea, ma non costruisco un modo dove questa possa essere ripristinata in forma collaborativa con altre nazioni; rinuncio alla socialità dello Stato perché questa non è sostenibile sul piano globale (e, per giunta, non è condotta in modo efficiente), ma non la innovo e non la ricostruisco su un piano di regole comuni e in modo più diffuso mondialmente, impoverendo la democrazia e il grado di civiltà del pianeta. In sintesi, oggi la relazione tra politica e mercato tende a sbilanciarsi troppo sul secondo, rivitalizzando per reazione le forme nazionaliste, socialiste o, in generale, protezioniste che si speravano superate e aprendo la strada al rafforzamento di un pensiero «economicista» troppo semplificato.

Che non sia più possibile né auspicabile una politica contro il mercato non vuol dire che la politica stessa e le istituzioni che produce siano irrilevanti per l’economia. Riteniamo frettolosi coloro che invocano meno politica per liberare del tutto il mercato e trasformarlo in organo e in cultura di governo del pianeta. Ambedue gli autori di questo volume sono liberisti  «ruminanti» -   cioè che non inghiottono famelici tutte le mode economiciste, ma masticano lentamente i bocconi per capirne meglio il sapore –, e sono preoccupati dalla teorizzazione dell’irrilevanza della politica che tende a prendere piede, dell’eventuale prevalenza della de-evoluzione sull’evoluzione della sovranità popolare. Temiamo, in sintesi, che il vuoto nella globalizzazione aumenti invece che diminuire. Per questo, pur portatori di diverse sensibilità e competenze, si sono trovati del tutto concordi sul fatto che occorra una politica forte per avere un mercato che lo sia altrettanto, ma in forme socialmente accettabili.

La tesi di questo volume è che abbiamo bisogno di costruire un luogo di definizione delle regole di esercizio della sovranità politica globale affinché il mercato planetario si possa formare e possa crescere senza crisi eccessive, a beneficio di tutti.  

Non ci fermeremo alle enunciazioni generali. Tenteremo di abbozzare le nuove istituzioni che secondo noi servono alla globalizzazione per trasformarsi in un pieno (politico) e non restare un vuoto. Cercheremo di delineare soprattutto le missioni da assegnare a istituzioni sovranazionali futuribili piuttosto che addentrarci nella loro organizzazione, rilevante per la loro efficacia, ma non per la validità preliminare delle nostre tesi.

Abbiamo individuate cinque funzioni e le riteniamo tutte indispensabili per colmare il vuoto politico:

  la missione di fissare regole standard, per perseguire l’obiettivo di far concorrere tutti gli Stati alla costruzione consensuale di un quadro di regole omogenee a cui attenersi sul piano interno;

la missione di offrire garanzie sussidiarie, per assicurare che tutti gli Stati rispettino le regole standard consensualmente concordate;

·        la missione di prevedere compensazioni, per mettere in grado ogni singolo Stato di gestire il gap tra sovranità nazionale e mercato globale (compresa la gestione delle emergenze);

·        la missione di garantire la stabilità monetaria, cioè il chiodo al quale appendere tutto il quadro (che, proprio per questo, deve essere robusto); 

·        la missione di tutelare l’eco- e il bio-sistema planetario, perché il degrado ambientale e la buona gestione della rivoluzione biologica in atto investono l’intero pianeta e non sono gestibili esclusivamente a livello nazionale.

Il lettore attento avrà notato che tali missioni, quinta a parte, sono molto simili a quelle che individuarono e definirono dopo la seconda guerra mondiale gli ideatori del nuovo ordine mondiale, creando istituzioni come l’Organizzazione delle Nazioni Unite (più oltre ONU), il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Banca Mondiale (WB), l’Accordo Generale per le Tariffe e il Commercio (GATT), ora Organizzazione per il Commercio Mondiale (WTO), e il Gruppo dei 7 paesi più industrializzati (G7). Tale osservazione è corretta. La formazione di un quadro cooperativo internazionale implicava fin d’allora una cessione di sovranità degli Stati nazionali agli organismi sovranazionali e possiamo sostenere che i meccanismi di trasferimento allora ideati hanno funzionato (finché così è stato). Ogni istituzione presenta però un arco vitale che si sviluppa dalla nascita, invecchia e muore, sia per il passare del tempo, sia per l’alternarsi delle vicende della vita e degli equilibri-squilibri internazionali. Con differenze di contenuto causate dalla fine dei blocchi politici alternativi e dall’emergere delle nuove tecnologie dell’informatica e delle telecomunicazioni, il problema si ripresenta oggi molto simile, ma richiede diverse soluzioni.

Rispetto alle condizioni di mezzo secolo fa, la globalizzazione impone oggi una cessione di sovranità nazionale maggiore ed è perciò necessario trovare il modo di gestire questo passaggio a livello sovranazionale ponendosi come fine di restituirla rafforzata a livello locale. Se non si riesce nell’intento, la perdita si traduce in riduzione di ricchezza per il mondo e in redistribuzione della stessa secondo regole diverse da quelle della no taxation without representation. Conviene ricordare a questo punto che tale regola è stata posta a fondamento della convivenza democratica nazionale in molti paesi, ma non di tutti, mentre ora è giunto il momento di estenderla alla convivenza globale, se non si vuole interrompere il processo di incivilimento culturale ed economico del mondo. A che cosa servirebbe la globalizzazione se non avesse questi sbocchi?

Oggi bisogna riprogettare le istituzioni create in passato e ripensare alle loro missioni, perché il compito di gestire il trasferimento della sovranità a livelli superiori e restituirla ai territori che compongono il mercato globale è immensamente più complesso di quello affrontato mezzo secolo fa. Il G7 e suoi moltiplicatori fino al G24 non sono sufficienti ad assolvere l’insieme delle funzioni richieste dal nuovo stato di cose; la loro azione può avere effetti illusori, perché quasi sempre gli accordi che essi propriziano indicano obiettivi senza mettere a disposizione gli strumenti per raggiungerli; e possono avere anche sbocchi pericolosi, perché evidenziano l’esistenza di una sovranità, sia essa statale sia di mercato, che domina sulle altre.

Quale scenario finale abbiamo in mente?

Un’architettura politica del mercato planetario che veda ancora protagonisti gli Stati nazionali nell’ambito di consessi internazionali che si prefiggano di operare come agenti del loro stesso cambiamento in un’ottica globale.

Gli Stati nazionali si dovranno trasformare in presidi locali del mercato globale. Così i processi positivi di quest’ultimo fluiranno senza grosse difficoltà in ogni nazione del pianeta. In sintesi, la costruzione della globalizzazione, dal vuoto al pieno, ha bisogno di un’architettura alla cui base vi siano gli Stati, che mantengano la loro identità, se lo vogliono, anche riunendosi in un unico cervello di sistema. Ma questa idea di nuovo ordine mondiale fatto di Stati sempre più autocoordinati richiede che ciascuno di essi riesca a restare sufficientemente sovrano per organizzare la propria apertura al mercato esterno in modo tale da non causare crisi economiche e di consenso all’interno. Ecco perché riteniamo indissolubile il binomio sovranità e ricchezza, sul quale ritorneremo con più dovizia di argomenti nel corpo del lavoro, e perché riteniamo punto centrale e critico del nuovo ordine mondiale il trasferimento della sovranità a istituzioni internazionali che sappiano restituirla al luogo di origine in forma compatibile con gli interessi delle nazioni, quando e nei modi che servono. 

 Noi riteniamo concreta la possibilità di attuazione della nostra proposta essendo innate nella globalizzazione spinte capaci di fertilizzare l’utopia insita in essa, se la politica saprà coglierne in pieno il significato.

Bernard Shaw ha affermato che il mondo va governato dai saggi, ma progredisce per le idee dei pazzi.

I due autori coltivano con la loro proposta l’ambizione di far fare un passo avanti alla civiltà del mondo

 

 

Carlo Pelanda e Paolo Savona   University of Georgia e Università LUISS-Guido Carli, ottobre 2000