Carlo Pelanda,
Lo stato della crescita
Sperling&Kupfer, Milano, 2000, pagg 192, 20.000 lire.
Fino a qualche tempo fa si parlava della globalizzazione come di un totem o
di un tabù di fronte al quale inchinarsi. Non c'era convegno o tavola rotonda
in cui studiosi e analisti non sciogliessero a essa lodi sperticate, o non
mettessero in guardia governi e cittadini sull'urgenza di adeguarvisi per non
perdere il treno della Storia, o per non farsi sopravanzare da quei paesi che
anzitempo si erano preparati alla ineluttabilità dell'evento.
La globalizzazione, per intenderci, è il mercato a misura nazionale e
continentale che si fa mondiale grazie alla rivoluzione telematica per la quale,
associando computer, televisione e telefono, si può operare in qualsiasi Borsa
del mondo standosene a casa, magari dormendo dopo aver bene imbeccato il
computer, e non soltanto per vendere o acquistare azioni e obbligazioni, ma
anche per fare affari, dare la scalata alle imprese, comprare immobili, ecc. Il
tutto "in tempo reale", come si usa dire in gergo, ossia all'istante o
quasi. Ma da qualche tempo in qua il dibattito sulla globalizzazione si è fatto
più problematico, ha sì continuato a sgranare la litania dei vantaggi che essa
può produrre quando spinge all'insù la produttività delle imprese, riduce
costi e prezzi, snida le parassitarie rendite monopolistiche, innesca insomma
quel "circolo virtuoso" per cui si ha più reddito, più consumi, più
investimenti e dunque più occupazione. Ma come è accaduto spesso in economia,
dal modello dottrinario alla realtà del giorno dopo giorno può esserci un gap,
uno scarto che ha fatto sorgere più di un dubbio sulle capacità salvifiche
della globalizzazione nel risolvere i problemi del mondo, che sono tanti e tanto
diversi da paese a paese, da continente a continente.
Così che alla pubblicistica plaudente alle "magnifiche sorti e
progressive" della globalizzazione se ne è affiancata un'altra
fiorentissima e tutt'altro che elogiativa o, dico meglio, elogiativa a
condizione che non ci si affidi al solo spontaneismo anarchico del mercato.
Infatti si è constatato che la globalizzazione a briglia sciolta ha aumentato
la distanza fra paesi ricchi e poveri del pianeta, come l'ha aumentata
all'interno degli stessi paesi ricchi, dove il vertice della piramide sociale
calamita la più parte del reddito prodotto sottraendolo alla base di quella
stessa piramide, sempre più povera ed emarginata. Non solo. Quando le grandi
compagnie tipo Xerox, Renault, Ibm, Total o Danone ristrutturano gli impianti e
licenziano il personale, i rispettivi titoli azionari svettano, e ciò ha il
sapore di beffa disumana per chi perde il posto di lavoro.
La verità è che la globalizzazione è un nuovo soggetto dello scenario della
storia, enigmatico e imprevedibile come tutte le novità che non hanno ancora
alle spalle esperienze consolidate, vittorie o sconfitte definitive. E quando
gli studiosi auspicano un potere politico che fissi alcune regole per cui la
globalizzazione riesca ad assicurare crescita costante dell'economia, e non a
produrre crisi a ripetizione, oppure assurde disuguaglianze che possono
esplodere in scontri sociali e perfino in conflitti bellici, essi si trovano a
tu per tu con il rompicapo di un potere politico mondiale che non c'è o che non
è rappresentativo della complessità o della vastità delle problematiche del
pianeta. Mentre c'è il potere economico mondiale. Affronta un rompicapo così
scabroso e insieme stimolante questo libro di Carlo Pelanda, che si legge
agevolmente perché schiva i fronzoli accademici e mira al concreto delle cose
da fare.
(Gianni Pasquarelli)