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Carlo A. Pelanda
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Carlo Pelanda: 2001-2-26il Giornale

2001-2-26

26/2/2001

Il cantiere che ci salverà

E’ deludente la risposta dell’Ulivo al grande programma di futurizzazione infrastrutturale del paese proposto dalla Casa della libertà: accettazione obtorto collo del ponte di Messina - i verdi hanno già annunciato che comunque non si farà -  e  promesse vaghe di mettere a posto un paio di aeroporti e porti al Sud, qualcosina per l’emergenza idrica, il tutto per 36mila miliardi, forse. Appare un progetto nominalistico, confezionato in fretta e senza convinzione, che dimostra mancanza di consapevolezza della scala necessaria per risolvere realmente i problemi e della relazione tra ingegneria del territorio e creazione della ricchezza. Concetti che, al contrario, sono ben chiari nel progetto di Berlusconi. Ma invece di confrontarsi seriamente con questo, Rutelli ha preferito liquidarlo come infattibile e non prioritario.  Invece lo è.

 Vediamo alcuni parametri geoeconomici e da questi deriviamo scala e priorità degli interventi necessari. L’Italia è un corpo economico dove in molte parti non arriva il sangue (il capitale) per mancanza di arterie e vene. Parte del sottosviluppo del Sud dipende dalla mancanza assoluta o portata insufficiente dei collegamenti con il centro geografico del mercato europeo. Infrastrutture sottodimensionate al fabbisogno aumentano i costi logistici delle industrie del centro-nord. Città intasate dal traffico, senza parcheggi sotterranei e metropolitane adeguate sono fonte di inquinamento (costi medici), perdite di ore di lavoro, maggiori spese per tutti gli attori economici.  Si tratta, complessivamente, di migliaia di miliardi all’anno che aggravano la crisi di competitività del nostro sistema industriale già penalizzato da tasse troppo alte e mercato del lavoro troppo rigido. Preliminarmente, possiamo stimare che il gap infrastrutturale dell’Italia comporti un “costo opportunità” endemico (cioè un guadagno minore di quello teoricamente possibile) di almeno l’1% del Pil, circa 20mila miliardi all’anno. Questa è una stima molto prudente, ma è sufficiente per indicare la resa futura e la grandezza degli investimenti utili per vascolarizzare l’Italia con nuove strade, ferrovie, aeroporti, porti, canali di navigazione. Che non sono opzionali, ma necessari: nel futuro la competitività tra territori esalterà ancor di più vantaggi e svantaggi infrastrutturali. Per questo, se non investiamo presto e molto, perderemo ricchezza netta invece della sola opportunità di farne di più. Ed è questo punto fondamentale che rende il problema di grande scala e urgente, diversamente dall’approccio ulivista che lo vede ordinario e da trattare gradualmente con piccoli interventi frammentati e non prioritari.

 Il programma di rivascolarizzazione infrastrutturale proposto da Berlusconi, stimato preliminarmente sui 200mila miliardi (circa 100,3 miliardi di euro) in dieci anni, è in linea per coprire le esigenze geoeconomiche dette. Inoltre l’investimento è del tutto sostenibile. I denari pubblici stanziati rientreranno certamente grazie all’incremento di ricchezza nazionale e, di conseguenza, del gettito fiscale. Probabilmente l’effetto moltiplicatore sarà molto maggiore nel lungo periodo e alcuni benefici verranno anticipati. Per esempio, l’apertura di centinaia di cantieri farà certamente da volano di crescita economica immediata, particolarmente al Sud. Molte opere infrastrutturali, inoltre, si prestano ad investimenti privati che saranno remunerati dalla gestione futura del bene costruito. Senza sottostimare la complessità del piano finanziario necessario, francamente non vedo problemi di fattibilità nel generare 200mila miliardi di investimenti. Ostacoli potrebbero esserci a livello di amministrazioni locali toccate dai progetti di interesse nazionale, come già sperimentato, per esempio, nel progetto per l’alta velocità ferroviaria.  Ma esistono soluzioni legislative e di buon senso tecnico che bilancino le necessità delle parti. Inoltre, molti casi di opposizione locale a grandi progetti sono stati alimentati dall’intransigenza antimodernista dei verdi entro governi di sinistra in cui questi erano determinanti. Ciò ha drogato di politichese i problemi, rendendoli irrisolvibili.   Diciamolo chiaro: la fattibilità, su questo piano, dipende dalla determinazione della leadership. Berlusconi l’ha dimostrata simboleggiandola con l’impiego innovativo di una lavagna dove era abbozzato il piano. Il messaggio è netto: si fa sul serio, apriamo cantiere.

 Vediamo, per contrasto, i cantieri che la sinistra al governo avrebbe dovuto aprire dal 1996 in poi e che ha lasciato chiusi. Grandi infrastrutture zero. Di cablatura del territorio nazionale se ne parla in raffinati convegni, ma nei fatti gira ben poco. Abbiamo le città antiche più belle del mondo e non c’è ancora uno straccio di progetto tecnologico che le faccia convivere con i requisiti urbanistici del presente. C’è Venezia che affonda di suo e per il mutamento climatico che alza il livello del mare e le sinistre (locale e nazionale) si sono opposte alle misure per salvarla. Abbiamo un Sud che è in via di desertificazione dove dovremo portare l’acqua con mezzi artificiali ed un nord in fase di tropicalizzazione dove bisognerà reincanalarla per evitare l’impaludamento e non ci sono neanche gli scenari preliminari per trattare tale problema futuro, ma non remoto. Abbiamo monti che franano, insediamenti vulnerabili ai terremoti, case nella valle di colata del Vesuvio: niente, in cinque anni. Appunto, per l’Ulivo tutto è infattibile. 

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