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Carlo A. Pelanda
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Carlo Pelanda: 2001-5-19Il Foglio

2001-5-19

19/5/2001

Il ritorno dell’inflazione è pericoloso, ma anche paradossale fonte di stabilità

Il ritorno dell’inflazione sia in Europa sia in America, dopo 25 anni di disinflazione, è un fenomeno  intenzionale e frutto di disordine politico oppure inintenzionale sulla base di tendenze necessarie? I governi dei principali paesi dell’eurozona non hanno saputo o potuto attuare riforme liberalizzanti. Per questo hanno favorito la svalutazione dell’euro in modo tale da compensare il gap di crescita interno con più esportazioni. Ma in tal modo hanno importato molta inflazione, cumulandola a quella interna generata endemicamente dall’inefficienza protezionistica. Hanno scelto intenzionalmente di “governare con l’inflazione” (disordine), ma sono anche rimasti bloccati da rigidità non facilmente riformabili in breve tempo (necessità). Vediamo se il caso americano è meno ambiguo. L’autorità monetaria sta tarando la riduzione dei tassi in relazione al criterio di salvare le Borse in una tendenza recessiva che sta dimezzando i profitti delle aziende quotate. In una misura che è oggettivamente imprudente in relazione al rischio di inflazione. Da un lato, non può fare altro. Dall’altro, se tale criterio d’emergenza durasse troppo, il mercato percepirebbe che la Fed gli cede la sovranità nel determinare il saggio di profitto. Sarebbe un pericoloso messaggio inflazionistico (simile a quello dato nell’autunno del 1998). Probabilmente Greenspan confida nel fatto che il dollaro sia talmente forte da non risentire di tale problema. Se resta alto può compensare sia una bottarella inflazionistica sia surrogare l’eventuale calo della produttività dovuto alla crisi in corso. Tuttavia la riduzione eccessiva dei tassi in una situazione di inflazione (energetica) crescente e di difficoltà nel riprendere la crescita aumenta la probabilità di stagflazione, quindi di recessione  globale. Il punto è che la Fed ha preferito il rischio sul lato dell’inflazione. Ma prevale la necessità, non il disordine o l’intenzionalità. In effetti “un po’” di inflazione”, in generale, ha la proprietà di quadrare il cerchio (politico, economico, sociale, finanziario) nel breve periodo pur innescando distorsioni nel medio. D’altra parte – questa è una chicca – se si analizzano due decenni di disinflazione rigorosa si scopre che il potere destabilizzante dell’inflazione non è mai stato domato, ma solo trasferito altrove. Esempi. Il basso costo del denaro dovuto alla poca inflazione in Occidente ha spinto i capitali nei luoghi del mondo a più a rapida crescita e disordinati, senza calcolo dei pericoli. Esito: crisi finanziaria globale del 1997. Le banche centrali hanno disinflazionato anche riducendo certe masse monetarie, ma il mercato ha creato moneta non regolata attraverso l’invenzione di derivati finanziari ed altre leve esotiche. Risultato: bolle e sgonfiamento. In sintesi, sia la disinflazione troppo rigorosa sia l’inflazione appaiono egualmente destabilizzanti. Ma la seconda lo è in modi più lenti e più governabili entro limiti, se flessibili. Paradossalmente, la condizione di “un po’ di inflazione”, anche se pericolosa e socialmente penalizzante, è quella che minimizza i rischi di instabilità più gravi: è il punto di equilibrio, intrinsecamente precario, tra vitalità inflazionistica naturale del mercato ed esigenza di contenerla. Pur senza intenzione, chi governa l’economia la sta di fatto praticando. Tale risposta al dilemma comporta una nuova domanda. Ci sono  migliori formule future di stabilità? Solo la moneta unica mondiale, ma ne passerà di acqua.   

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